Quello catalano di fine settembre doveva essere l’appuntamento definitivo, dopo cinque anni di estenuante dibattito sulla possibile indipendenza, di mobilitazioni oceaniche, di simbolici referendum di rivendicazione. In una società sempre più insofferente per la crisi economica e i casi di corruzione, spaventata e sedotta allo stesso tempo da quanto avveniva nella Grecia di Tsipras, i cittadini avrebbero infine ufficialmente parlato.
Così aveva impostato il voto il governo regionale di Artur Mas, anticipandolo di quasi due anni rispetto alla scadenza normale, perché a suo dire il governo centrale aveva finora impedito ai catalani di esprimersi. Così pure, almeno a caldo, lo hanno interpretato i media internazionali: i loro titoli hanno messo in risalto la vittoria, in seggi, delle forze politiche indipendentiste. E così infine lo percepivano i mercati, che – anche Bloomberg sottolinea come alla vittoria indipendentista in seggi non ne corrisponda una in voti e quindi si allontani il rischio reale di una separazione – fanno schizzare dello 0,7% i bonos spagnoli e, parallelamente riducono lo spread.
Viste da vicino, le indicazioni che arrivano dal voto sono molto più frastagliate, ricche e profonde che non un’interpretazione binaria. La questione catalana si conferma, a tutti gli effetti, una delle molte manifestazioni della variegata crisi politica spagnola ed europea.
Il grande storico della guerra fredda John Lewis Gaddis, nel saggio The Landscape of History, dedicato all’essenza e alla metodologia della scienza storica, sottolinea come e quanto quest’ultima, quando si propone l’analisi del passato, non può eludere un principio fondamentale: quello dell’interdipendenza delle variabili. Tutti gli attori in gioco – politici, economici, mediatici, istituzionali – si influenzano vicendevolmente, e a loro volta sono influenzati dagli attori e dalle circostanze più grandi (sia temporali che geografiche).
Nella campagna elettorale catalana hanno appunto avuto un peso fondamentale le dichiarazioni e gli atteggiamenti di tanti diversissimi attori. I dirigenti politici di Madrid ad esempio, che spesso hanno dato prova di non capire cosa accadesse – come nel caso di Felipe González che un giorno ha paragonato l’indipendentismo al nazismo, per poi correggersi e ricorreggersi nei giorni successivi. E poi gli attori economici: le grandi banche hanno emesso un comunicato contro l’indipendenza.
Come se non bastasse, l’influenza degli eventi “greci” ha contato: paradossalmente il conservatore Mas è stato paragonato a Tsipras, per voler affermare il “diritto a decidere” dei catalani. Inoltre, ci sono stati gli interventi, più o meno velati, più o meno diretti dei leader internazionali – Angela Merkel, David Cameron, Jean-Claude Junker – che si sono espressi a favore del mantenimento dell’integrità territoriale dello Stato spagnolo.
Insomma, la questione che catalizza l’attenzione del continente in realtà va molto oltre la paventata secessione. Si potrebbe dire che siano state elezioni “porose”, sia per gli input della campagna, sia per gli output dei risultati: identità, sovranità (politica ed economica), articolazione istituzionale. Sono in fondo gli stessi grandi temi della politica in Spagna e nella UE nel suo insieme. La Catalogna si è rivelata microcosmo del dibattito europeo, inserita per di più in un’area allo stesso tempo sofferente e strategica per il futuro dell’Unione come il Mediterraneo. Anche la geografia ha avuto il suo peso.
Dopo una partecipazione record – quasi il 78% degli aventi diritto, mezzo milione di votanti in più di tre anni fa – è difficile fare previsioni a caldo su cosa accadrà. Ci sono però almeno cinque considerazioni che è utile fare.
La prima è legata all’aritmetica: le forze chiaramente favorevoli alla secessione raggiungono la maggioranza dei 135 seggi dell’assemblea regionale – rispettivamente 62 e 10 – ma non la maggioranza dei voti, visto che si fermano al 47,8%. Vittoria agrodolce per l’indipendentismo, che smentisce il ragionamento plebiscitario alla base della convocazione delle elezioni.
La seconda è la frammentazione e mutazione del quadro politico. Si conferma l’originalità del sistema catalano, con sei forze politiche in parlamento tra cui i due grandi partiti statali contano poco: il listone Junts pel Sí (“Insieme per il Sì”, unione dei nazionalisti conservatori di Covergència Democràtica de Catalunya e dei repubblicani di sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya, più indipendenti) ottiene 62 deputati; gli unionisti di Ciutadans, 25 deputati; i socialisti del PSC, 16; Catalunya sí Que es Pot (la coalizione che contiene Podemos e gli ecosocialisti di Iniciativa per Catalunya Verds) 11, a pari merito con il Partido Popular; la forza di sinistra radicale Candidatura d’Unitat Popular (CUP, l’altra forza indipendentista), 10. Molte di queste forze sono nuove agglomerazioni, che oltre al carattere plebiscitario del voto rispondono a una tendenza più profonda di cambiamento del sistema tradizionale dei partiti.
La terza considerazione, dunque, riguarda il fatto che nel nuovo parlamento sarà difficile stabilire maggioranze di governo. Da questo punto di vista, la continuità di Artur Mas alla guida della Generalitat, a capo di una maggioranza indipendentista, non sembra possibile. Per essere eletto avrebbe bisogno dei voti della CUP, ma quest’ultima ha fatto sapere che non voterà il presidente uscente, che ha voluto e applicato una durissima politica di tagli alla spesa sociale (sanità ed educazione comprese) e che è rappresentante di un partito, Convergència Democràtica de Catalunya, in forte crisi per una lunga lista di inchieste per corruzione.
Una quarta osservazione ha a che vedere con i pessimi risultati del PP e invece con la chiara affermazione di Ciutadans (C’s). Il tracollo dei popolari, mai stati particolarmente forti in Catalogna, ma neanche così deboli, ha dimostrato che la linea della fermezza (o della sordità) rispetto al malessere dei catalani mette in fibrillazione il partito di Rajoy. In vista delle elezioni politiche di dicembre la concorrenza di C’s può essere un serio problema, di cui il PP ha già avuto un assaggio nei suoi feudi tradizionali, come Valencia, alle amministrative di maggio.
Un’ultima considerazione riguarda il risultato dei socialisti, che pur perdendo seggi non soccombono, grazie a una proposta di conciliazione basata sulla riforma in senso federale della Costituzione del 1978. Dato importante, visto che si tratta di una formula, ora rispolverata, che è stata a lungo maggioritaria in Catalogna: un centro-sinistra riformatore, attento alle politiche sociali e capace di proporre architetture istituzionali che diano spazio alla pluralità territoriale interna.
Da questo punto di vista, sarà molto importante vedere pure come i socialisti, in Catalogna, ma anche in Spagna, si interfacceranno con Podemos. Il movimento di Pablo Iglesias ottiene risultati piuttosto deludenti, ma proprio sulla proposta dell’apertura di un processo costituente – in termini di diritti economici e sociali, ma anche di innovazione istituzionale – potrebbe giocarsi tutto il suo futuro politico.
Quest’ultima questione risulta particolarmente importante, perché le elezioni del 27 settembre segnano effettivamente l’entrata del sistema spagnolo in quella che i media hanno già battezzato Seconda Transizione. La vicenda catalana sembra esserne un singolare sintomo: l’editorialista de La Vanguardia Antoni Puigverd ha parlato del voto come “cavatappi” per la stagnante situazione spagnola.
Alle politiche di dicembre molti temi saranno in gioco: le politiche di austerità; la lotta alla corruzione; una riconfigurazione territoriale dello stato che superi i limiti della Costituzione del 1978, scritta sotto il ricatto implicito ed esplicito (come dimostrò il tentativo di golpe del 1981) di una destra franchista ferocemente accentratrice e poco rispettosa della realtà plurinazionale spagnola.
Ammainate le bandiere, da domani, a Barcellona e Madrid (ma anche a Bruxelles) si dovrà tornare, per tutte queste ragioni, a parlare di politica.