Come gestire in modo sicuro e proficuo la transizione egiziana? Accelerare i tempi per voltare pagina una volta per tutte o pazientare per ricostruire con calma il contesto politico nazionale? Sono questi i dilemmi che preoccupano quanti in Egitto auspicano che all’uscita di scena di Hosni Mubarak segua un effettivo processo di democratizzazione. I militari gestiscono il paese dall’11 febbraio scorso, mentre le proteste di strada non sembrano spegnersi: ci sono dunque ragioni per mettere in dubbio la reale portata del cambiamento.
Le preoccupazioni più immediate sono anzitutto di natura economica, visto che le rivolte iniziate a gennaio hanno fatto sparire gli introiti del redditizio settore turistico. Intanto le condizioni di sicurezza nelle strade del Cairo si sono deteriorate per la scarsa presenza di forze dell’ordine almeno in alcuni quartieri, a tutto vantaggio della criminalità. In parte per evitare un collasso dell’ordine pubblico, i militari hanno spesso implementato le stesse misure repressive del vecchio regime, ma sono andati anche oltre nell’uso della forza: ciò è accaduto in particolare in occasione della manifestazione organizzata da un gruppo di attiviste egiziane scese in strada l’8 marzo, quando alcune sono state arrestate e molestate, e poi nuovamente l’8-9 aprile, quando l’ennesima protesta contro il Consiglio Supremo delle Forze Armate è stata placata con violenza dai militari (causando anche la morte di un manifestante). Intanto, la stretta autoritaria dell’esercito (oltre al divieto di sit in e scioperi) è diventata evidente anche rispetto ai mezzi di informazione: i militari hanno imposto ai giornalisti di non pubblicare alcun articolo o servizio sull’esercito senza il controllo delle autorità. A finire nel mirino dei tribunali militari sono stati anche alcuni blogger, accusati di aver messo in dubbio l’unità di intenti tra popolo e militari.
Sullo sfondo, l’iniziale solidarietà tra copti e musulmani sembra essersi allentata, e i problemi settari sono tornati in auge. A esacerbare queste tensioni sono stati anche i salafiti (esponenti di una corrente islamica estremista con origini saudite) che cercano di approfittare del vuoto di potere per attuare la loro rigida interpretazione dell’Islam.
C’è poi la sfida relativa alla costituzione, il cui lungo processo di revisione è iniziato il 19 marzo, quando gli egiziani sono stati chiamati alle urne per votare un referendum sulla modifica di alcuni articoli della Carta in vigore dal 1971. Oltre alle modifiche di alcuni aspetti del sistema elettorale, la vittoria del fronte del “sì” ha avuto un importante impatto sulla tempistica della transizione, portando il paese a due appuntamenti elettorali nei prossimi sei mesi: le elezioni parlamentari previste per settembre e le presidenziali per dicembre. Solo alla fine di questo processo sarà creata un’assemblea costituente con il compito di redigere un nuovo testo. Anche se buona parte della popolazione auspica che accelerando i tempi si vedranno più rapidamente i frutti della rivoluzione, numerose forze di opposizione temono che il periodo di transizione sia troppo breve per rendere competitivi i diversi gruppi che ora vogliono diventare attori della scena politica. È diffusa la previsione che a beneficiare di tale accelerazione siano esclusivamente i Fratelli musulmani e i rappresentanti della vecchia guardia del regime, cioè gli unici già abituati e attrezzati per agire nella sfera politica.
La Fratellanza, grazie soprattutto al suo consolidato impegno nei settori dell’assistenza sociale, gode di un buon sostegno popolare soprattutto tra le classi meno abbienti. Pur avendo problemi di coesione interna, I Fratelli musulmani hanno voluto comunque lanciare segnali rassicuranti, dichiarando che il nuovo partito (Libertà e Giustizia, fondato il 6 giugno) è tecnicamente autonomo dal movimento, e annunciando che non candiderà un suo rappresentante alle presidenziali e correrà solo per il 49% dei seggi parlamentari.
Resta comunque il rischio che la frammentazione delle forze laiche impedisca loro di entrare in parlamento, finendo così per non essere rappresentate nell’assemblea costituente. Il momento è delicato anche per i sospetti di una sorta di accordo di protezione reciproca tra i militari e la Fratellanza, in particolare a seguito del boicottaggio da parte del movimento del secondo “venerdì della collera” organizzato il 27 maggio da vari gruppi di attivisti.
Nell’attuale panorama egiziano, la frammentazione (e dunque una incerta governabilità) potrebbe essere il male minore, purché si riesca a dare voce a rappresentanza alle forze più innovative e ai giovani. Dopo tanti anni di “stabilità autoritaria”, ciò andrebbe anche a vantaggio delle minoranze di ogni tipo e consentirebbe al sistema politico di evolvere in modo più aperto e dinamico.