international analysis and commentary

I nuovi fattori dell’equazione israelo-palestinese

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La crisi militare in atto a Gaza evidenzia quattro novità che, a prescindere da come si concluderà, distinguono il Medio Oriente a tre anni e mezzo dall’inizio delle rivolte arabe.

La prima è che Hamas è nell’angolo, e lo è perché paga le conseguenze delle primavere arabe. La Siria di Bashar Assad, che per venti anni l’ha rifornita di soldi e armi, è neutralizzata dalla guerra civile; senza contare che il raìs di Damasco ha il dente avvelenato con Hamas, perché in Siria l’organizzazione palestinese si è schierata con i ribelli sunniti. Hamas ha perso anche le retrovie egiziane perché al Cairo non governano più i Fratelli musulmani di Mohamed Morsi bensì un esecutivo sotto la forte influenza dei militari, che considerano Hamas un’emanazione dei Fratelli musulmani, dunque avversaria. Ciò significa che Hamas ha perso i sostegni, logistici e politici, più importanti che aveva nella regione. Anche perché Qatar e Turchia, che pure fanno arrivare aiuti economici, non sono partner militari paragonabili ad Assad o ai Fratelli musulmani egiziani. A ciò bisogna aggiungere che l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Bahrein, la Giordania e l’Egitto guidano un’offensiva inter-araba per fare terra bruciata attorno ai Fratelli musulmani ed ai loro alleati, ovunque si trovino. Il risultato è il voto della Lega araba del 14 luglio che chiede a Hamas di accettare il cessate il fuoco con Israele, mettendo in evidenza la coesione fra le capitali sunnite.

La seconda novità è che in Israele stiamo assistendo alla genesi di una nuova dottrina. Yaakov Amidror, ex consigliere della sicurezza nazionale di Netanyahu la definisce “la dottrina del Castello”. Israele, circondata da aree di instabilità crescente, prive di governo e popolate da gruppi terroristi, per difendersi deve procedere in tre direzioni: rafforzare le barriere fisiche protettive, raccogliere intelligence minuziosa su cosa avviene a ridosso delle proprie frontiere e attaccare le minacce ove si concretizzano. Questo è esattamente l’approccio del governo Netanyahu a Gaza:  la barriera di confine è stata potenziata con un sistema di sensori e telecamere hi-tech, la raccolta di intelligence sulla Striscia non è mai stata così capillare – anche grazie ai droni – e l’operazione “Protective Edge” è iniziata, il 7 luglio, in risposta ai primi grappoli di razzi lanciati da Hamas contro le città del Sud. Il sistema anti-missile Iron Dome, che ha intercettato circa il 90% dei razzi destinati a colpire aree popolate, rientra nel rafforzamento delle barriere protettive. Sotto tali aspetti dunque stiamo assistendo a Gaza ad un test delle operazioni – di dimensioni assai variabili – che Israele potrà condurre in futuro contro gruppi jihadisti insediatisi ai suoi confini. È uno scenario reso verosimile dal fatto che sul Golan vi sono al momento circa venti gruppi ribelli, che la Giordania è minacciata dall’avanzata dei miliziani del “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi e che nel Sinai operano i jihadisti di Beit al-Maqqdis, legati ad Al-qaeda. Senza contare gli Hezbollah sciiti nel Libano del Sud, che restano gli avversari più temibili dello Stato ebraico.

Il terzo elemento di novità è che l’Egitto punta a diventare (nuovamente) una potenza regionale. L’indebolimento della presenza americana in Medio Oriente consente alle potenze regionali di alzare il profilo e puntare a creare proprie aree di influenza. L’Iran lo sta facendo nel Golfo, sfruttando i timori dei vicini per il suo programma nucleare, mentre l’Arabia Saudita gioca la partita opposta, puntando a diventare il Paese-leader del fronte anti-Teheran. E l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi ha individuato il proprio binario nella lotta senza quartiere ai Fratelli musulmani ed ai loro alleati. Dopo averli messi al bando in Egitto – con centinaia di condanne a morte e migliaia di arresti – ed aver portato nel Sinai almeno 13 brigate corazzate – con il consenso di Israele, in base agli accordi di Camp David – per smantellare Beit al-Maqqdis, Al-Sisi ha siglato con il re saudita Abdullah il patto per estirpare i Fratelli musulmani dai maggiori Paesi sunniti. Ed ora punta a cogliere un risultato importante ai danni di Hamas. Per Al-Sisi, Hamas è stato l’alleato più importante dei Fratelli musulmani egiziani, quando erano al potere con Morsi, ed assieme “complottarono contro l’esercito egiziano” come ha detto in una recente intervista tv. Da qui il desiderio di mettere alle strette Hamas e dunque la scelta di chiudere il passaggio di frontiera di Rafah come anche di bloccare il trade tunnel che fino al 2013 ha alimentato economicamente Hamas. L’operazione israeliana “Protective Edge” consente dunque ad Al-Sisi di avere uno strumento in più per portare a termine un disegno strategico: indebolire o annientare la galassia di organizzazioni legate ai Fratelli musulmani per assumere un ruolo guida nel mondo sunnita. Diventando l’artefice della controrivoluzione araba.

Infine, Abu Mazen è in cerca di una via d’uscita. Dopo il fallimento delle trattative con Israele, durate nove mesi sotto la mediazione degli Stati Uniti, il presidente palestinese ha puntato le sue carte sul governo di unità nazionale con Hamas (sancito a inizio giugno), andando incontro alle critiche di Washington ed alle ire di Gerusalemme. L’operazione “Protective Edge” azzera lo scenario di una svolta moderata di Hamas e pone Abu Mazen di fronte alla necessità di ripensare la via d’uscita da questa fase di difficoltà. Fra le ipotesi in discussione a Ramallah c’è il coinvolgimento maggiore di Russia ed Unione Europea in una ripresa del negoziato con Israele. L’alternativa è tornare all’ONU per accelerare l’adesione della Palestina a tutte le singole organizzazioni, al fine di creare problemi di legittimità internazionale alle forze israeliane in Cisgiordania. Molto dipende da come finirà la crisi di Gaza, che potrebbe anche obbligare Abu Mazen ad assumersi maggiori responsabilità nella gestione dell’amministrazione della Striscia, da dove Al-Fatah venne cacciato nel 2007 dalla rivolta di Hamas.