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I negoziati nucleari con l’Iran: lo stallo che non si sblocca

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I negoziati con l’Iran sul suo programma di arricchimento dell’uranio sembrano quasi una di quelle favole inquietanti, in cui un sortilegio obbliga i protagonisti a rivivere all’infinito le stesse scene. Dal primo tentativo di accordo del 2003 sono passati più di sette anni: un numero pressoché infinito di incontri ufficiali, iniziative Track 2 di diplomazia parallela, proposte e controproposte tecniche, sanzioni unilaterali, occidentali, delle Nazioni Unite, minacce di attacchi militari preventivi e di risposte asimmetriche, mediazioni, dichiarazioni roboanti, concilianti, quasi-accordi. Ma un compromesso credibile e accettabile per entrambe le parti non si è ancora raggiunto. Difficile che lo si trovi nel previsto nuovo round di incontri fra i rappresentati della Repubblica islamica dell’Iran e dei P5+1 (i cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania) o comunque in un prossimo futuro.

L’Occidente – e gli Stati Uniti per primi – sembra ormai affidarsi a una strategia incerta: tenere aperte le porte dei negoziati, sperando che le nuove sanzioni economiche inducano l’Iran a più miti consigli. Di fatto, la comunità internazionale è pronta a fare grandi concessioni a Teheran pur di chiudere un accordo che non suoni per noi disonorevole, e che in qualche modo rassicuri tanto Israele quanto i paesi arabi sunniti (compito in realtà davvero improbo). Ma il tempo ha finora lavorato a favore dell’Iran, che ha continuato a progredire sulla strada di una capacità nucleare militare “latente”, incrementando quantitativamente e qualitativamente la propria capacità di arricchimento dell’uranio (vedi l’articolo di Michele Gaietta). Da questo punto di vista, è incredibile la perdita di potenza geopolitica dell’Occidente nei negoziati: chi ha partecipato ai programmi Track 2 sul nucleare con l’Iran, sa bene che fino a qualche anno fa si cercava una via d’uscita onorevole e che “salvasse la faccia” a Teheran, mentre oggi la situazione appare assai diversa. Fino al 2006 non si tollerava che la Repubblica islamica potesse disporre di poche decine di centrifughe per l’arricchimento a scopi di ricerca; oggi si è pronti ad accettarne migliaia.

In ogni caso, per chiudere un accordo occorre essere in due. Finora, l’Iran non ha mai saputo o potuto accettare le offerte internazionali. Come sempre, la politica interna del paese è un caleidoscopio di posizioni di difficile interpretazione, in cui le posizioni si invertono in nome di un tatticismo esasperato. Gli ultra-radicali al potere sembrano paradossalmente più pronti a un accordo rispetto ai conservatori tradizionali o perfino ai riformisti (come dimostrato dal “quasi-accordo” che era stato raggiunto con i negoziatori di Teheran nell’autunno del 2009 a Ginevra e Vienna). Questo perché il “loro presidente”, Mahmoud Ahmadinejad – la cui legittimità è stata indebolita dai massicci brogli elettorali che nel 2009 ne hanno consentito la ri-elezione – beneficerebbe grandemente di un accordo internazionale. Ma, al tempo stesso, è evidente che proprio la mancanza di un compromesso, le sempre più severe sanzioni internazionali e il crescente isolamento politico hanno favorito l’ascesa degli ultra-radicali e dei pasdaran: questi perseguono la trasformazione della teocrazia iraniana in un sistema di potere neo-totalitario, molto più brutale e meno tollerante del passato. 

La recente defenestrazione del ministro degli Esteri, Manouchehr Mottaki, dimostra il livello dello scontro interno. Mottaki era uno dei pochi ministri a non comportarsi da yes-man, e che rispondeva non tanto al presidente quanto alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Era inoltre legato al presidente del Majlis, il conservatore Ali Larijani, a sua volta in pessimi rapporti con Ahmadinejad. L’irrituale allontanamento di Mottaki – è stato cacciato mentre era in missione ufficiale all’estero – svela inoltre la crescente debolezza di Khamenei e dei conservatori tradizionali di cui Mottaki era espressione. Facile quindi immaginare ora un ulteriore peggioramento delle relazioni fra un governo sempre più monoliticamente radicale e un Majlis dagli spazi di manovra ulteriormente ridotti.

Nonostante ciò, sarebbe semplicistico aspettarsi cambiamenti di rotta improvvisi, a seguito di questo avvicendamento. In Iran tutto è più complicato di quanto appaia a prima vista. Anche il nuovo ministro degli Esteri pro-tempore, Ali Akbar Salehi, è stimato e vicino a Khamenei. Soprattutto egli è il capo dell’Agenzia atomica iraniana: una certificazione, la sua nomina, di come il problema nucleare abbia “vampirizzato” ogni altra questione, nei rapporti con l’esterno. Da anni la politica estera del paese si riduce quasi del tutto alla questione nucleare, nonostante i tentativi di Teheran di giocare su più tavoli e di evitare l’isolamento.

Di fatto, i governanti della Repubblica islamica hanno tentato nello scorso decennio di acquisire una capacità tecnica latente in campo nucleare, evitando però “la via coreana”: dunque, cercando di evitare sanzioni ONU, sviluppando la propria economia e proseguendo il processo di re-inclusione politico e diplomatico faticosamente avviato agli inizi degli anni Novanta. Un obiettivo complesso e troppo ambizioso: l’Iran è sì ormai vicinissimo alla potenzialità nucleare, ma sta pagando costi economici spaventosi per questa sua ambizione. Sul versante politico è ancora dubbio che i rapporti sempre più stretti con Cina, Turchia, Brasile e altri stati in ascesa possano compensare l’isolamento rispetto all’Europa e il deterioramento nei rapporti con i paesi arabi sunniti, monarchie del Golfo in testa.

È vero che la crisi economica e di primato geopolitico dell’Occidente viene considerata a Teheran come un’assicurazione contro un possibile attacco militare preventivo; ma proprio questo senso di crescente impotenza a fermare la crescita tecnologica iraniana può portare a decisioni radicali in Israele, le cui conseguenze e i cui possibili effetti indiretti rischiano di sfuggire di mano alla comunità internazionale. Ma sarebbe per certo l’Iran a pagare i costi maggiori.