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I governi europei e le scelte dei posti-chiave a Bruxelles

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Ad ormai quasi due mesi dalla chiusura delle urne per le elezioni europee, i capi di Stato o di governo degli Stati membri dell’Unione si sono riuniti il 16 luglio a Bruxelles per una riunione straordinaria del Consiglio europeo. All’ordine del giorno c’era innanzitutto la nomina del nuovo presidente del Consiglio europeo e dell’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, oltre che dei ventotto commissari – uno per ciascuno Stato membro. Come noto, infatti, sia l’attuale presidente, il belga Hermann Van Rompuy, sia l’alto rappresentante, l’inglese Catherine Ashton, lasceranno i rispettivi incarichi entro la fine dell’anno.

Il Consiglio si è concluso con un nulla di fatto e tornerà ad aggiornarsi il 30 agosto, nella speranza che, per quella data, le divisioni oggi esistenti tra paesi dell’Europa orientale e occidentale, oltreché dell’Europa del Nord e del Sud, saranno state appianate.

Nella giornata di martedì, intanto, il parlamento europeo ha eletto l’ex presidente dell’Eurogruppo e primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, a presidente della Commissione europea. I voti favorevoli sono stati 422, i contrari 250. La maggioranza richiesta era di 376. Tra i contrari nelle file dei conservatori sono spiccati in particolare i “no” dei deputati britannici tories e di quelli ungheresi (benché questi siano affiliati allo stesso gruppo politico a cui appartiene Juncker, il partito popolare), i quali, sin dall’inizio, avevano definito quella del cristianodemocratico Juncker una candidatura troppo “euro-entusiasta”.

Al di là di alcune defezioni, si è comunque trattato di una delle maggioranze più larghe mai raggiunte da un candidato alla presidenza proposto dal Consiglio europeo – un vero e proprio esempio di “larghe intese” o di grande coalizione. Il Consiglio ha mostrato di voler rispettare l’articolo 17 § 7 del Trattato di Lisbona (TFUE, entrato in vigore il 1° dicembre 2009), in base al quale, nel procedere all’indicazione del candidato, il Consiglio deve tenere conto del risultato delle elezioni europee. Queste, come noto, sono state vinte a livello continentale dal partito popolare, di cui Juncker era il capolista; ma solo dopo una lunga battaglia interna, che ha visto l’irriducibile opposizione di David Cameron e Viktor Orbán, il Consiglio ha deciso di seguire il dettato di Lisbona.

Nel suo discorso dai toni marcatamente europeisti, tenuto subito dopo l’investitura, Juncker (che si insedierà formalmente a fine anno) ha ribadito che la nuova Commissione non modificherà il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), ma che comunque continuerà ad applicarlo in maniera flessibile, a seconda delle circostanze, come già fatto in passato dalla Commissione Barroso.

Sul fronte della crescita, Juncker ha anche annunciato un nuovo piano di investimenti da finanziare attraverso la BEI (guidata dal tedesco Werner Hoyer) che mobilizzerà trecento miliardi in tre anni. Juncker ha poi ricordato l’importanza della moneta unica per l’integrazione europea e, strizzando un occhio ai deputati verdi – tra i più attivi nell’europarlamento, e potenzialmente utili per ampliare le larghe intese in vigore a Bruxelles – ha promesso un impegno per sviluppare ulteriormente il settore delle energie rinnovabili. La nuova Commissione si regge infatti su un inedito accordo tra socialisti e popolari, che replica i rapporti di forza all’interno della coalizione che governa nella Repubblica federale. Per la Cancelliera tedesca Merkel sarà più comodo reggere le sorti dell’Europa con un tandem rosso-nero sia a Bruxelles, sia a Berlino.

Anche le nomine per la presidenza del Consiglio UE e per l’alto rappresentante seguiranno questa logica. Per questa prima posizione, l’attuale vicepresidente della Commissione, Neelie Kroes, si è pubblicamente espressa a favore della nomina del primo ministro danese, la socialista Helle Thorning-Schmidt, la quale avrebbe sinora incassato l’appoggio determinante di Germania, Francia ed Italia. Parigi, tuttavia, sembra avere qualche dubbio in più, dal momento che la Danimarca non fa parte dell’eurozona. La nomina del presidente del Consiglio UE potrebbe perciò richiedere negoziati molto più lunghi ed essere decisa soltanto in autunno. Nella scelta finale peseranno sicuramente gli equilibri tra i gruppi politici europei popolare, socialista e, in parte, liberale, tra i quali i posti in lizza verranno divisi secondo complicati calcoli politico-geografici.

Per il resto, ben undici Stati membri, capitanati dalla Polonia e dai Paesi baltici, sarebbero contrari alla nomina del ministro degli Esteri italiano, Federica Mogherini, ad alto rappresentante (criticata anche dal Wall Street Journal per i toni troppo morbidi usati nei confronti della Russia). Alla Mogherini – anch’essa esponente del gruppo socialista – potrebbe quindi essere preferito un ex premier lettone (Valdis Dombrovskis) o estone (Andrus Ansip), l’attuale Commissario per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari, la bulgara Kristalina Georgieva, o, infine, l’ex primo ministro irlandese, Enda Kenny.

Infine, sulla scorta di quanto deciso qualche ora prima dal governo degli Stati Uniti, il Consiglio UE ha discusso e deliberato l’adozione di nuove sanzioni nei confronti di Mosca (come del resto era stato preannunciato) : dopo le ultime deliberazioni del Consiglio risalenti al 27 giugno, il presidente Putin non avrebbe contribuito in maniera sufficiente a stabilizzare la situazione in Ucraina. Di qui, il congelamento di tutte le attività in Russia della Banca europea degli investimenti e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.

Si dovrà ora attendere la fine di agosto per le decisioni relative all’alto rappresentante e al presidente del Consiglio UE, e la pausa estiva sarà dunque densa di contatti informali per trovare la quadratura del cerchio.