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I due obiettivi asiatici di Washington

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Il viaggio asiatico attraverso le quattro grandi democrazie della regione alleate di Washington – India, Indonesia, Corea del Sud e Giappone – è servito a Barack Obama a un duplice obiettivo: esporre la sua visione di una nuova architettura istituzionale, e aprire i mercati del Pacifico e dell’Oceano Indiano al Made in USA puntando a recuperare posti di lavoro in patria.

L’architettura internazionale che Obama ha in mente è incentrata sul coinvolgimento delle potenze economiche emergenti. Se nel primo biennio di presidenza tale approccio si è concretizzato nella trasformazione del G20 nel primario foro di confronto e decisione sull’economia globale, nel secondo biennio Obama punta a ripetere lo stesso approccio sul fronte politico e strategico, accelerando la riforma delle Nazioni Unite. Per questo, nel discorso al Parlamento di Nuova Delhi, si è detto a favore dell’assegnazione all’India di un seggio permanente (lasciando in sospeso la questione del diritto di veto), e a Yokohama ha ribadito il sostegno ad un analogo riconoscimento per il Giappone. Se a ciò si aggiunge che la Casa Bianca negli ultimi anni ha fatto analoghe – ma non altrettanto pubbliche – promesse a Brasile e Germania, ciò che ne emerge è una visione del nuovo Consiglio di Sicurezza basato sulla forza economica e produttiva dei componenti. L’idea di fondo di Obama è che chi è forte e prospero deve “assumersi le conseguenti responsabilità” nell’architettura internazionale del XXI secolo contribuendo a rendere l’Onu più credibile ed efficace, facendone rispettare le decisioni ed applicandone le sanzioni. È interessante notare come tale approccio abbia portato Obama, prima durante la tappa a Jakarta e poi a Yokohama, anche a sottolineare la necessità di assegnare competenze “politiche e strategiche” all’APEC – il Forum economico dei 21 Paesi del Pacifico. E ha suggerito come primo terreno di prova le ”questioni del Mar Cinese meridionale” dove i contenziosi sulla sovranità dell’arcipelago delle Spratly oppongono Pechino alle nazioni dell’Indocina e alle Filippine. Spingendo per assegnare più responsabilità politica alle nazioni asiatiche protagoniste di una straordinaria crescita economica – le previsioni parlano di un raddoppio del PIL entro i prossimi cinque anni – Obama dà sostanza ad una politica estera che è stata orientata verso il Pacifico sin dall’indomani della sua elezione, quando lo disse con chiarezza nel discorso che pronunciò a Tokyo nel primo viaggio asiatico. È Tom Donilon, il nuovo consigliere per la sicurezza regionale, a ricostruire la genesi di tale processo, ”Quando ci mettemmo al lavoro nel gennaio 2009 la prima discussione fu su quale area del mondo avrebbe dovuto vederci impegnare più tempo e risorse, e la scelta unanime fu di indicare l’Asia.” Premiando così anche l’identità di un presidente nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia: dunque, incarnazione di una multiculturalità che lui stesso ha affermato a Mumbai di ritrovare nelle popolazioni dell’Asia.

Il secondo obiettivo del viaggio è stato di aprire ai prodotti americani i mercati di una regione ormai prospera, a colpi di accordi commerciali e trattati: dai 10 miliardi di dollari di commesse ottenute in India (che hanno fruttato circa 52 mila posti di lavoro in America) alla dichiarazione finale del G20 di Seoul che impegna tutti i partner – Cina inclusa – ad evitare “svalutazioni competitive” delle rispettive monete, fino al braccio di ferro con la Corea del Sud sulla sigla di un accordo di libero scambio. Per finire con la “Partnership del Transpacifico”, della quale Obama ha parlato al summit dell’APEC indicandola come priorità comune per accelerare gli scambi in un’area dove si trovano sette dei maggiori quindici partner commerciali degli Stati Uniti. A Delhi, a Jakarta e nella conferenza stampa finale di Seoul, Obama ha spiegato che guarda all’Asia per raddoppiare l’export americano – che oggi è pari al 7% del PIL nazionale, rispetto al 34% della Germania – nell’arco di cinque anni al fine di contribuire a risollevare l’occupazione perché ”ogni miliardo di dollari di beni esportati comporta la creazione di 5000 posti di lavoro in patria“. Per la Casa Bianca ciò significa chiedere all’Asia di accettare un rapporto di reciprocità: se negli ultimi decenni sono stati i consumatori americani ad acquistare beni giapponesi, indiani, coreani e indocinesi, rendendo possibile il loro miracolo economico, ora tocca a queste nazioni aprire le loro frontiere al Made inUSA per consentire alla crescita americana di rimettersi in moto ”affinché a giovarsene sia il mondo intero”.

All’interno di questa strategia c’è anche il tassello della ricetta del ”doppio binario“ per risolvere gli attuali squilibri commerciali: stabilire in sede di G20, sotto la nuova presidenza di turno francese, parametri differenti per le economie con surplus e con deficit affinché, ognuna attraverso una propria strada, contribuiscano a consolidare l’attuale fase di debole crescita globale.

Resta da vedere se la doppia scommessa sul coinvolgimento delle potenze emergenti nell’architettura internazionale e sull’export come antitodo alla disoccupazione riuscirà a risollevare in America prestigio e popolarità di un presidente uscito indebolito dalla sconfitta patita dai democratici nelle elezioni di midterm. A giudicare da come i grandi giornali e le maggiori tv americane hanno seguito e commentato la visita, bersagliando il presidente di critiche su fallimenti e risultati a metà, è facile dedurre che la Casa Bianca ha di fronte un cammino tutto in salita.