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La pace fredda dopo Seul

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Può darsi, anzi è sicuro, che il G20 di Seul non abbia prodotto risultati sostanziali: né sulle regole della finanza internazionale (“siamo ancora a metà strada”, ha sostenuto il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi); né sulle questioni monetarie (la Cina ha ottenuto che dal testo della dichiarazione finale fosse cancellato ogni riferimento alle monete “sottovalutate”), né sulla riduzione degli squilibri fra surplus e deficit commerciali (respinta la richiesta americana di fissare tetti quantitativi, sarà il Fondo Monetario a definire degli indicatori di massima).

Ma resta che il vertice di Seul ha chiarito il punto di sostanza. E il punto di sostanza è che le principali economie mondiali hanno comunque interesse a cooperare. In parte, in modo graduale, per aggiustamenti successivi; ma a cooperare invece che a farsi la guerra.

Vediamo meglio. Sia l’America che la Cina sono e restano potenze “sovraniste”: poco disposte, cioè, ad accettare regole e istituzioni globali che non controllino più (gli Stati Uniti) o non controllino ancora (la Cina). Sia l’America che la Cina, inoltre, pensano che quello che è bene per l’economia nazionale sia un bene per il sistema nel suo insieme. Da questo punto di vista, l’atteggiamento è esattamente speculare; ed è probabile che entrambe abbiano una parte di ragione: l’America quando sostiene che una Cina così integrata nell’economia internazionale non può continuare ad avere cambi fissi, la Cina quando sostiene che l’America non può continuare ad inondare di liquidità l’economia globale.

Tutto questo spiega i limiti intrinseci di un foro come il G20: che funziona bene nelle fasi “eroiche” (tamponare la crisi del 2008), ma che fa molta più fatica a gettare le basi di nuovi accordi monetari o commerciali. Ci vorrà un decennio, probabilmente, per arrivare a una vera riforma del sistema monetario internazionale: ma è già evidente che Pechino guarda a una prospettiva del genere (a quando, cioè, il renminbi diventerà una moneta di riserva internazionale) mentre Washington è consapevole che il dollar-standard dovrà essere, prima o poi, superato.

Per ora, i costi della transizione ricadono in parte notevole sull’euro: dal punto di vista europeo, quindi, insistere su una riforma più rapida del sistema monetario internazionale sarebbe in teoria una priorità.

In teoria. Nei fatti, al tavolo del G20, l’Europa è in posizione di debolezza. Per tre ragioni, che la presidenza francese del G20 non riuscirà facilmente a superare. La prima ragione, decisiva, è legata all’impatto delle crisi latenti del debito sovrano: la crisi greca prima di Toronto, la crisi irlandese sul tavolo di Seul. Un’Europa che deve continuamente rassicurare i mercati sul proprio futuro, non può convincere più di tanto come attore globale. Una seconda ragione è che la riforma della governance internazionale comporta una riduzione delle vecchie “rendite di posizione” europee, con i conflitti interni che ne derivano: lo vedremo subito, quando gli europei dovranno decidere come “perdere” due seggi nel Board Esecutivo del FMI, secondo le decisioni di Seul. Infine, ma è una ragione importante, l’Europa continua a giocare di sponda, piuttosto che assumere proprie iniziative. L’asse provvisorio fra Cina e Germania, al tavolo di Seul, è l’asse dei grandi paesi in surplus; ma è anche il segno che il cuore economico del Vecchio Continente, dopo avere perso il baricentro atlantico, ha cominciato ad oscillare.

L’Europa teme, in effetti, sia un eccesso di cooperazione USA-Cina (il cosiddetto G2), sia una rottura fra le due principali economie globali. La realtà è che nessuno dei due scenari è destinato a verificarsi. Come dimostrerà la visita del presidente Hu Jintao negli Stati Uniti, nel gennaio prossimo, il rapporto bilaterale fra Pechino e Washington vivrà di fasi conflittuali ma anche di spinte cooperative. Né G2 né nuova guerra fredda. Una pace fredda, forse. Rispetto a cui il problema europeo non è di posturing ma di sostanza: l’UE deve crescere, in tutti i sensi.