international analysis and commentary

I due anni difficili per la politica estera americana: una questione strutturale

244

Davvero siamo alla “mesta fine” di Barack Obama, come hanno scritto molti commentatori nei giorni scorsi? Le cose sono un po’ più complesse di così: la conquista del Senato da parte dei Repubblicani non altera sostanzialmente l’equilibrio legislativo, già paralizzato dalla vittoria del GOP alla Camera nel 2010. Il Congresso voterà una serie di misure essenzialmente propagandistiche, come la cancellazione della riforma sanitaria del 2010, sapendo di andare incontro al veto presidenziale: si tratta del “posizionamento” in vista delle elezioni presidenziali del 2016. Quindi dobbiamo aspettarci altri due anni di gridlock, di paralisi, ma questo è esattamente ciò contro cui gli elettori americani hanno manifestato la loro rabbia con il voto parziale del 4 novembre.

In politica estera le cose stanno un po’ diversamente, perché da decenni questa viene considerata il “dominio riservato” dei Presidenti e il Congresso è stato ben felice di evadere le sue responsabilità costituzionali, criticando Ronald Reagan, George W. Bush o lo stesso Obama in maniera solo marginale e contraddittoria. Basti ricordare che a suo tempo la Camera votò per l’impeachment di Richard Nixon per l’ostruzionismo nel caso Watergate e non per la “guerra segreta” in Cambogia che fece centinaia di migliaia di morti tra i cittadini dello sfortunato paese asiatico. Bill Clinton dovette affrontare la messa in stato d’accusa e il rischio di rimozione dalla carica per le sue scappatelle con una stagista (negate sotto giuramento) ma non per i bombardamenti di civili in una guerra mai dichiarata contro la Serbia.

Cosa accadrà, quindi, alla politica estera americana da qui al 20 gennaio 2017, quando un nuovo Presidente si installerà alla Casa Bianca? Per capirlo è opportuno fare un passo indietro: Barack Obama fu eletto nel novembre 2008 non solo grazie al tracollo di Lehman Brothers avvenuto poche settimane prima ma anche grazie al rifiuto di una maggioranza degli elettori verso le guerre in Afghanistan e Iraq, all’epoca già durate più di quanto fosse durata la seconda guerra mondiale. L’opinione pubblica sostiene il suo Commander–in-Chief a condizione che le guerre siano brevi e vittoriose: qualsiasi altro risultato ha un prezzo politico molto caro per i Presidenti in carica.

Obama fu quindi eletto per riportare a casa le truppe e sostanzialmente l’ha fatto. Non è colpa sua se la dinamica distruttiva messa in moto dalle due invasioni decise dall’amministrazione Bush ha avuto conseguenze incontrollabili. In Afghanistan è chiaro a tutti che i talebani possono aspettare e che qualsiasi regime gli americani sostengano a Kabul ha i giorni contati, o al massimo potrà conservare il controllo della capitale. In Iraq, il vuoto di potere lasciato dal ritiro delle truppe e dall’incompetenza del regime di Nouri al-Maliki ha permesso l’espansione territoriale del cosiddetto Califfato islamico, favorito dalla guerra civile nella confinante Siria.

In entrambi questi teatri di guerra, quindi, Obama continuerà sostanzialmente a seguire la politica adottata in questi anni, cioè un mix di operazioni speciali affidate alla CIA o a consiglieri militari e bombardamenti aerei. Questa strategia ha il vantaggio di non richiedere un impopolare dispiegamento di nuove truppe all’estero ma, naturalmente, ha il limite di godere di un’efficacia limitata: contro avversari motivati e legati al territorio occorre, prima o poi, avere boots on the ground, cioè truppe addestrate, e in numero sufficiente, sul posto. Per una scelta di questo genere, tuttavia, Obama sarà ben lieto di lasciare la patata bollente al suo successore. Che questi sia Hillary Clinton o un giovane e aggressivo esponente repubblicano come Paul Ryan, Marco Rubio o Scott Walker, fa poca differenza: il nuovo Presidente dovrà fare i conti con i vincoli sistemici che limitano la libertà d’azione di Washington.

Questi vincoli sono di tre tipi: limitazioni di bilancio, capacità d’azione militare, rapporti con gli alleati. Sul bilancio la situazione è chiara: benché gli Stati Uniti godano del “privilegio imperiale” di stampare una moneta accettata come principale valuta degli scambi internazionali e come moneta di riserva dalle banche centrali, il costo dello strumento militare è sempre più difficile da sostenere in tempi di deficit (nel frattempo, infatti, le spese per il welfare si sono dimostrate sostanzialmente incomprimibili e sono anzi in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione). Quindi, nei prossimi dieci anni i Presidenti dovranno fare l’opposto di ciò che diceva con arroganza il Vicepresidente Dick Cheney, secondo il quale “Deficits don’t matter”. Al contrario, i deficit avranno sempre più importanza.

Il secondo problema è quello del rapporto costo/efficacia dello strumento militare. La gigantesca burocrazia del National Security State, con basi in oltre cento Stati del mondo, ha rivelato i suoi limiti quando si è trattato di combattere la guerriglia: per mandare truppe in Afghanistan e in Iraq il Pentagono ha dovuto raschiare il fondo del barile facendo ricorso alla Guardia nazionale, spesso due o tre volte per ogni singolo soldato. Non solo: un’efficace azione di counterinsurgency richiede una determinazione del governo e dell’opinione pubblica che gli Stati Uniti non sembrano possedere se non in momenti eccezionali e per brevi periodi. Le tecnologie di comunicazione non permettono poi di usare oggi la spietatezza e la ferocia utilizzate con successo, ad esempio, dall’impero britannico contro i nazionalisti in Asia e in Africa negli anni Cinquanta.

Infine, gli alleati tradizionali. Mentre sul piano interno si teme soprattutto la paralisi governativa, sul piano internazionale la credibilità e la popolarità degli Stati Uniti non sono allo zenith. Detestati da gran parte del mondo musulmano, gli Stati Uniti sono più apprezzati per il loro dinamismo tecnologico che per i loro valori universalistici. Cina e Russia reprimono il dissenso senza badare troppo ai moniti che vengono da Washington o da Bruxelles. Nelle capitali europee l’interesse per la politica estera è presente solo a Parigi e a Londra, dove però operano due governi deboli e impopolari, mentre nel resto dell’Unione si pensa solo e soltanto alla stagnazione dell’economia. La nomina di una neofita come l’italiana Federica Mogherini ad Alto commissario per la politica estera della UE – almeno nella percezione diffusa a Bruxelles – è più rivelatrice di mille discorsi.  

Gli Stati Uniti di Obama, nei prossimi due anni, si troveranno quindi a fronteggiare numerose crisi, dal Medio Oriente all’Ucraina, senza avere strumenti efficaci, unilaterali o multilaterali, per affrontarle. L’accusa di “mancanza di leadership” rivolta a Obama è ingenerosa e propagandistica: sono le condizioni strutturali in cui gli Stati Uniti si trovano sulla scena mondiale a limitare le possibilità di azione del Presidente, di qualsiasi Presidente.