Recentemente si è molto parlato delle possibili motivazioni “geopolitiche” alla base della decisione saudita di non tagliare la propria produzione petrolifera, in particolare ipotizzando una volontà di colpire avversari (e concorrenti) come l’Iran e in certa misura la Russia.
La realtà appare più semplice: con un’influenza in declino sul mercato petrolifero (il regno saudita attualmente fornisce circa il 10% della produzione mondiale, e consuma un quarto del greggio che estrae), Riyadh ha reagito alla nuova situazione del mercato piuttosto che plasmarla. Tale situazione è determinata dalla vertiginosa crescita della produzione americana di shale oil, a cui si è affiancata l’elevata fornitura di esportatori come Russia, Iraq e (fino a poco tempo fa) Libia, malgrado i conflitti che affliggono questi ultimi due Paesi. Se si aggiunge la scarsa domanda mondiale e il recente apprezzamento del dollaro, il calo del greggio era inevitabile.
Di fronte alla saturazione della domanda, i sauditi avevano due possibilità a disposizione: difendere le proprie quote di mercato abbassando i prezzi della propria offerta, o tagliare la produzione nel tentativo di sostenere la quotazione del greggio. Riyadh aveva seguito la seconda strada negli anni Ottanta, con conseguenze disastrose: il drastico calo dei propri ritmi di estrazione (da 10 milioni di barili al giorno nel 1980 ad appena 2,5 nel 1985-86) non aveva impedito la discesa dei prezzi, mentre altri produttori avevano acquisito le quote di mercato saudite. Oggi Riyadh ha deciso di cambiare strategia. Consapevole di non poter difendere da sola il valore del greggio, ha scelto di non tagliare la produzione lasciando prendere il sopravvento alle leggi della libera concorrenza. Facendo valere la propria prerogativa di produttore a bassissimo costo, l’Arabia Saudita spera di tagliare fuori dal mercato i produttori con costi di estrazione più alti.
In particolare, l’assunto che Riyadh avrebbe garantito un prezzo del petrolio fra i $90 e i $100 al barile aveva spinto i produttori americani di shale oil a indebitarsi per avviare costosi progetti estrattivi, confidando che l’elevata quotazione del greggio avrebbe permesso loro di rifondere i propri debiti. Con il crollo dei prezzi, i progetti più costosi rischiano ora di uscire dal mercato. Che Riyadh punti proprio a mettere fuori gioco i competitori statunitensi sembra confermato dalla decisione, a inizio gennaio, di tagliare ulteriormente i prezzi petroliferi riservati al mercato nordamericano, pur aumentando quelli per il continente asiatico.
Non bisogna poi dimenticare che i rapporti americano-sauditi sono tesi fin dallo scoppio delle rivolte arabe. Di fronte alla decisione statunitense di “abbandonare” l’allora Presidente Hosni Mubarak, alleato dei sauditi in Egitto, alla successiva riluttanza di Barack Obama a intervenire militarmente in Siria, e alla crescente indipendenza energetica di Washington, Riyadh ha temuto che gli USA stessero cominciando a disinteressarsi delle sorti del regno. Per i sauditi tagliare la produzione petrolifera avrebbe significato permettere a Washington di emergere come il principale produttore mondiale, mentre la perdita di quote di mercato avrebbe reso Riyadh ancora più irrilevante agli occhi statunitensi.
Un mutamento fondamentale è che ora le compagnie americane di shale oil potrebbero acquisire di fatto, sebbene contro la loro volontà, il ruolo di swing producer che ha finora svolto Riyadh: quando il petrolio sale esse possono estrarre, e la nuova produzione ha l’effetto di calmierare i prezzi. Quando scende, sono costrette a sospendere la produzione – non più redditizia – e ciò a sua volta frena la caduta del greggio.
Naturalmente ai sauditi non dispiace se avversari geopolitici come l’Iran o concorrenti come la Russia, che sono a loro volta esportatori petroliferi, vengono a trovarsi anch’essi in maggiori difficoltà a causa del crollo dei prezzi. Ma è interessante notare che, paradossalmente proprio a causa delle sanzioni, l’Iran è parzialmente protetto dal calo del petrolio, almeno sul breve periodo. A causa dell’embargo, infatti, gli introiti petroliferi iraniani si accumulano in conti bancari all’estero a cui Teheran in gran parte non può comunque accedere. Una riduzione di tali introiti non ha dunque un effetto immediato sulle capacità di spesa del governo – sebbene la situazione economica iraniana resti problematica.
Comunemente si ritenga che il break-even price iraniano (cioè il prezzo del greggio necessario al governo per non incorrere in un deficit di bilancio) sia di ben $140 al barile, ma questo valore è fuorviante. Le sanzioni hanno infatti spinto Teheran a diversificare la propria economia così come le proprie entrate statali. Di conseguenza gli introiti petroliferi oggi rappresentano meno della metà delle entrate statali (nel 2011-12 ammontavano a due terzi) e appena il 22% del PIL iraniano. Per fare un paragone, basti pensare che per l’Arabia Saudita tali introiti costituiscono mediamente il 90% delle entrate statali e il 52% del PIL, sebbene il break-even price (in continua ascesa anche per Riyadh) sia di $97 al barile.
Naturalmente, sul medio e lungo periodo un così marcato calo del greggio (sceso a metà gennaio intorno ai $45 al barile) rappresenta un problema anche per Teheran. Il crescere delle preoccupazioni iraniane è apparso evidente nel progressivo inasprimento delle accuse rivolte contro Riyadh. Se all’indomani della riunione OPEC di fine novembre il Ministro del petrolio Bijan Zanganeh aveva dichiarato che il principale bersaglio della decisione saudita di non tagliare la produzione erano le compagnie americane di shale oil, recentemente un numero crescente di responsabili iraniani ha più o meno apertamente accusato Riyadh di cospirare ai danni di Teheran.
Ma l’attuale situazione del mercato petrolifero comporta rischi anche per l’Arabia Saudita. Il governo ha già chiuso il 2014 in deficit, per la prima volta dal 2009. E la legge di bilancio per il 2015 prevede un ulteriore deficit di $39 miliardi, il più alto mai registrato nella storia della monarchia. Inoltre, negli anni passati le spese governative si sono spesso rivelate sottostimate, e ciò fa sì che il deficit effettivo a fine 2015 potrebbe arrivare a toccare i 53 miliardi, secondo alcune stime di economisti sauditi.
In linea di principio Riyadh può permettersi di finanziare il deficit per diversi anni attingendo alle proprie ingenti riserve. La Saudi Arabian Monetary Agency (il fondo sovrano saudita) gestisce un portafoglio di oltre $750 miliardi. In passato, in coincidenza con analoghi crolli del greggio, i sauditi hanno ugualmente fatto ricorso alle loro riserve finanziarie, hanno tagliato i progetti governativi e ridotto il pubblico impiego. Il problema dell’economia saudita sta però nel fatto che è in gran parte sostenuta dallo Stato, con un settore privato molto debole. Già si prevede che la crescita del PIL rallenterà nei prossimi due anni, passando dal 3,7% nel 2014 ad appena l’1,8% nel 2016. Il regno deve poi fare i conti con un’elevata disoccupazione, che facilita l’insorgere del malcontento: in particolare, malgrado un leggero calo del tasso complessivo nel 2014, la disoccupazione giovanile è rimasta invariata, intorno al 28%.
Dopo lo scoppio delle rivolte arabe, Riyadh ha aumentato enormemente le spese sociali, proprio nello sforzo di prevenire il “contagio” rivoluzionario. La monarchia ha incrementato anche l’esborso per sicurezza interna e difesa. Quest’ultimo nel 2013 è balzato al quarto posto mondiale, dopo quelli di USA, Cina e Russia, con un valore di $67 miliardi. Inoltre Riyadh ha aumentato le spese per sostenere il Consiglio di Cooperazione del Golfo e gli alleati regionali (dall’Egitto al Libano, passando per l’opposizione siriana). Se il prezzo del greggio dovesse mantenersi a lungo intorno ai $50 al barile, alcune di queste spese potrebbero non essere più sostenibili, e le conseguenze politiche e di sicurezza sarebbero profonde.