All’indomani dell’elezione di François Hollande alla presidenza della repubblica francese, la stampa d’oltralpe non ha lesinato gli aggettivi. Un’elezione storica, si è detto, un cambiamento di strategia radicale, in un momento difficile per la Francia e per l’Europa. Qualche settimana fa la storia di copertina del prestigioso The Economist sottolineava tuttavia il carattere surreale e velleitario di una campagna elettorale in cui i candidati si confrontavano senza tenere in considerazione il contesto europeo e globale in cui il nuovo presidente sarà costretto a muoversi.
Ad onor del vero, il programma del candidato Hollande, come quello dell’ex presidente Sarkozy, è abbastanza moderato, e attento alla situazione delle finanze pubbliche ereditata dalla crisi. Le misure per arrivare all’equilibrio naturalmente differiscono in modo sostanziale da quelle che aveva (e avrebbe) preso Sarkozy, ma senza negare la necessità di un riequilibrio dei conti pubblici. E anche nei suoi primi atti da presidente, pur cercando di distanziarsi dalla precedente amministrazione, Hollande ha tenuto fermo l’impegno di rispettare gli obiettivi di finanza pubblica su cui la Francia si è impegnata con le istituzioni e i partner europei. Al tempo stesso, l’Economist aveva tuttavia ragione sul fatto che i “vincoli esterni”, vale a dire i partner commerciali, i consessi internazionali come il G20, i mercati finanziari, limitano fortemente le possibilità di azione di ogni governo, incluso quello di un grande paese come la Francia. Pochi paesi oggi possono sperare di avere, con le loro politiche nazionali, un impatto significativo sull’economia mondiale; e la Francia non è più uno di essi.
L’entusiasmo della stampa francese potrebbe tuttavia non essere del tutto ingiustificato. Il giorno dell’elezione, la folla riunita alla Bastiglia (la piazza storica della sinistra francese) ha ascoltato il presidente eletto parlare di concetti alti: la dignità, il cambiamento, la responsabilità, la giustizia, la gioventù. Non vi sono stati riferimenti al programma, alle misure che verranno prese nelle prossime settimane; con una sola eccezione, significativa: Hollande ha detto di voler dare voce a quei popoli europei che vogliono, testuali parole, “farla finita con l’austerità”.
Ed è qui che potrebbe giocarsi la sfida dei prossimi mesi. Dall’inizio della crisi greca, nell’ormai lontano 2009, l’Unione Europea è dominata da quella che si potrebbe chiamare la “dottrina di Berlino”. Questa predica l’austerità e la compressione della domanda interna tramite riforme strutturali, che dovrebbero condurre a migliorare la competitività e quindi ad una crescita trainata dalle esportazioni. Il nuovo patto europeo che François Hollande ha dichiarato di voler rinegoziare, il Fiscal Compact, incorpora questi principî, e sancisce il dominio della dottrina di Berlino.
Il rischio però è sotto gli occhi di tutti: l’austerità sta soffocando l’Europa, con i paesi della periferia che si avvitano in una spirale recessiva che richiede nuove politiche di austerità portatrici di ulteriori cali della domanda e della produzione.Le finanze pubbliche continuano infatti a preoccupare i mercati e gli osservatori precisamente a causa di una cronica mancanza di crescita, ma nessuno di questi paesi ha potuto o voluto finora opporsi alle condizioni dettate dal governo di Angela Merkel, spalleggiata (quanto convintamente non è chiaro) dalla Francia di Sarkozy.
È vero che il clima era cambiato prima dell’elezione di Hollande, e che la crescita è diventata il nuovo mantra di molti governi, compreso quello italiano e delle istituzioni europee (BCE, Commissione). Ma per molti si tratta di una crescita da ottenere tramite riforme strutturali, con pesanti costi sociali nel breve periodo a fronte di benefici (ammesso che ci siano) solo nel lungo periodo. La lettera firmata da Mario Monti con Cameron e altri leader europei nel febbraio scorso, anche se all’epoca era stat relativamente poco pubblicizzata, è particolarmente interessante a questo riguardo. Nessuno può negare l’importanza di politiche volte a rendere più efficace e competitiva l’offerta. Ma oggi l’Europa ha un problema impellente di domanda aggregata e ha quindi bisogno di sostegno immediato alla propria economia, e di un coordinamento delle politiche nazionali che renda meno doloroso l’aggiustamento dei paesi in difficoltà. È qui la sfida per François Hollande. Se manterrà la sua opposizione al patto fiscale, se chiederà con più forza una vera politica europea di investimenti, una banca centrale meno ossessionata dall’inflazione, una solidarietà tra paesi che passi ad esempio per gli eurobond, potrà forse agire da catalizzatore. Intorno alla Francia, membro fondatore dell’Unione Europea, potranno raccogliersi paesi finora troppo piccoli o troppo screditati per poter imporre l’abbandono di un’austerità che appare sempre più fine a sé stessa, e che ci avvicina ogni giorno all’implosione della moneta unica. Questo non risolverà per magia tutti i problemi europei, che rimangono poderosi; ma consentirà almeno di intravvedere una via d’uscita dalla tetra situazione nella quale ci troviamo oggi.
Se tutto questo avverrà la stampa francese avrà avuto ragione, e François Hollande, il “presidente normale”, potrebbe essere ricordato come il salvatore del progetto europeo. I suoi primi passi lasciano ben sperare, ma tutto deve ancora succedere.