Una gran pioggia è arrivata a Kabul qualche giorno dopo la clamorosa azione dei talebani in pieno centro, davanti al parlamento e nell’area del carcere, coordinata con altri attacchi in almeno tre province del paese: la cosiddetta “offensiva di primavera” largamente annunciata. La pioggia ha finalmente fatto depositare la polvere che, come una cappa, avvolge continuamente una città ormai cresciuta a dismisura e dove il manto stradale è quasi ovunque una mera aspirazione. La capitale afgana è rimasta paralizzata per 18 ore durante gli attacchi (i “martiri” non si arrendono e dunque snidarli – ossia ucciderli – richiede tempo) e poi quasi svuotata il giorno successivo. Ma nel giro di 24 ore la normalità ha ripreso il sopravvento come se ormai si sia messo in conto che, ogni tanto, qualcosa del genere può accadere: un atteggiamento fatalista che emerge anche tra i sondaggi, i quali denunciano disillusione e amarezza con un affievolimento delle speranze di pace e di benessere che avevano accompagnato i primi anni delle operazioni NATO in Afghanistan.
Gli analisti, come ritualmente avviene, si sono preoccupati di commentare le dichiarazioni ufficiali che, abbastanza rapidamente, hanno fatto slittare la condanna da una generica accusa ai talebani a una più mirata responsabilità della Rete Haqqani. Si tratta della fazione più radicale, più qaedista, più vicina ai servizi segreti pachistani (ISI) del movimento dei turbanti. In effetti la tattica dell’attacco e le modalità di esecuzione confermerebbero un’ipotesi che viene tradotta come l’esclusione degli Haqqani dai negoziati di pace che, nonostante lo stop ufficiale dei talebani, non sono del tutto naufragati. Questa lettura insiste sul timore degli Haqqani che la rete “concorrente” dell’Hezb-e-Islami (Gulbuddin Hekmatyar) e la shura di Quetta (il Gran consiglio dei talebani di mullah Omar) li lascino fuori dai benefici di un eventuale accordo. Altra tesi è che questa azione rifletta – per via indiretta – la contrarietà del Pakistan alle trattative condotte senza il coinvolgimento di Islamabad.
Come ha ben spiegato Antonio Giustozzi, uno dei migliori conoscitori della realtà talebana, considerare gli Haqqani “altro” dal movimento è fuorviante. Una lettura che condividono anche i ricercatori di Afghanistan Analysts Network (AAN), uno dei più autorevoli think tank della capitale: gli Haqqani dunque sarebbero solo una parte del tutto, e con una limitata autonomia. Del resto, il movimento tende comunque a “coprire” anche le azioni non direttamente programmate dalla shura di mullah Omar.
È anche possibile che sia in atto uno scontro tra direzione politica (Quetta) e direzione militare (Peshawar, città settentrionale capoluogo delle aree tribali del Pakistan), più che tra fazioni diverse. La vecchia guardia di Quetta – che riunisce i turbanti più “politici” e più inclini al negoziato – sarebbe ora in difficoltà.
Certo è che l’attacco dei giorni scorsi, qualunque fosse l’intenzione dei responsabili, non sembra aver portato molta acqua al mulino della guerriglia. In realtà, il maggior beneficiario dell’intera vicenda sembra esser stato proprio il nemico numero uno dei talebani: Hamid Karzai. Il presidente ha aspettato che la battaglia finisse, restando silente durante le quasi venti ore di scontro; ma appena ha avuto in mano dati sicuri (ad esempio il numero di civili uccisi, otto in tutto di cui quattro a Kabul) ha messo in campo una convincente strategia di comunicazione. Ha così sottolineato l’eroismo dei suoi uomini: poliziotti, militari, funzionari dei servizi che si sono sacrificati per la sicurezza della città. Pur non risparmiando le critiche all’intelligence afgana (uno degli edifici utilizzati dal commando si trova di fronte a una sede periferica dell’NDS, la direzione nazionale per la Sicurezza), Karzai ne ha approfittato per accusare la NATO di lasciare ormai le forze locali da sole a tutelare la sicurezza dei cittadini.
Il presidente sta giocando d’anticipo: ha di fronte il summit NATO di Chicago e soprattutto la fretta malcelata di un rapido ritiro americano e, in sequenza, degli altri partner dell’Alleanza. Le truppe se ne andranno entro il 2014? Karzai dice che si potrebbe pensare al 2013. Gli americani hanno fretta di concludere l’accordo di partnership strategica con Kabul? Bene, purché accettino, pur se obtorto collo, le richieste afgane, come in gran parte già avvenuto (trasferimento dei detenuti a Bagram sotto giurisdizione afgana, fine dei raid notturni dell’Alleanza e degli americani, mentre resta aperta la trattativa sul futuro delle basi).
La sensazione è che il presidente stia preparando il proprio futuro, cioè un accordo che di fatto gli consenta di restare al timone: un “Karzai-bis” è vietato dalla Costituzione, ma si può pensare a una sorta di interim a qualche amico fidato che lasci aperta la strada per ripresentarsi alla tornata successiva (ipotesi su cui invece la carta fondamentale non è chiara). Ma Karzai sembra favorevole ad anticipare le elezioni, il che richiede comunque di mettere mano alla Costituzione per non farle coincidere nel 2014 col ritiro occidentale; a quel punto si potrebbe anche prevedere una clausola che cambi le regole del gioco con la possibilità di ricandidarsi a un terzo mandato.
Come che sia, a Kabul già girano i nomi del futuro candidato. Farooq Wardak, ad esempio, attuale ministro dell’Istruzione, personaggio che tra l’altro non sarebbe indigesto a Islamabad. È chiaro in ogni caso che le dinamiche interne sono direttamente influenzate da quelle internazionali: ad esempio, è interessante notare come i talebani abbiano fatto avere le loro scuse al Giappone (che non ha militari in Afghanistan) per aver colpito, erroneamente nel recente attacco, anche la sua sede diplomatica. Un segnale, tra tanti, che anche i talebani ragionano in termini ben più vasti di quelli nazionali.