international analysis and commentary

Gli interessi egiziani nello scenario libico

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La decapitazione di 21 copti egiziani da parte di una sospetta cellula libica affiliata allo Stato Islamico (IS), avvenuta presumibilmente nella baia di Sirte il 15 febbraio scorso, ha scatenato la reazione unilaterale dell’Egitto. I raid dell’Egyptian Air Force si sono in particolar modo concentrati contro le postazioni delle milizie islamiste a Derna e a Sirte, provocando diverse decine di morti. Pur essendo stata un’azione dettata soprattutto dall’emotività del momento, le operazioni egiziane sul fronte libico rientrano in una strategia di politica estera e di sicurezza del Cairo: una strategia funzionale e strumentale agli obiettivi di politica interna, in primo luogo il contenimento della minaccia islamista e jihadista che dalle aree periferiche del Paese rischia di estendersi al cuore dello Stato. 

Fin dalla Rivoluzione del 2011, ma soprattutto dalla destituzione di Mohamed Morsi nel luglio 2013, i temi della sicurezza e del terrorismo hanno rappresentato una priorità per tutti gli esecutivi di transizione a causa della recrudescenza di frequenti attentati. Questi si sono concentrati nel Sinai centro-settentrionale (in particolare nel triangolo di Al-Arish-Sheikh Zuweid e Rafah) e nei territori lungo il confine occidentale con la Libia (Marsa Matrouh e Farafra) contro una determinata tipologia di obiettivi, selezionati dai terroristi poiché ritenuti simboli del potere oppressivo del Cairo – persone fisiche o infrastrutture politiche, economiche o militari.

Se il principale fronte era inizialmente solo il Sinai, dopo gli attentati mortali a Farafra e Marsa Matrouh della scorsa estate le autorità cairote hanno spostato la propria attenzione verso il confine libico. Il timore egiziano si sostanzia sia in un possibile effetto spillover delle violenze sul proprio territorio, sia in un travaso all’interno dei propri confini di soggetti fuoriusciti e sempre più radicalizzati della Fratellanza Musulmana, che hanno trovato in Cirenaica un riparo sicuro da dove poter poi rilanciare l’azione contro il governo centrale cairota.

Ad accrescere il clima di instabilità lungo il confine occidentale egiziano hanno inoltre influito altri fattori. Il primo è il fervore terroristico e i legami sempre più stretti tra i gruppi radicali come Ansar Bayt al-Maqdis (ABM, ora rinominatosi Islamic State’s Wilayat Sinai dopo l’affiliazione all’IS nello scorso novembre), Mohammed Jamal Network e Ansar al-Sharia Libya. Un secondo fattore, altrettanto rilevante, è quello dei traffici illeciti di uomini e armi che avevano trovato in quella parte di frontiera condivisa un ventre molle da cui attingere per favorire la crescita e lo sviluppo di attività potenzialmente destabilizzanti per tutto il Medio Oriente.

A fronte di una minaccia divenuta ora duplice (Sinai e Libia) e accresciutasi anche in conseguenza della repressione attuata dall’establishment politico-militare contro le opposizioni liberali e islamiste, Il Cairo ha alzato il livello massimo di allerta lungo il proprio confine occidentale e ha adottato nuove e più stringenti misure in materia di anti-terrorismo; non ha però ottenuto, fino ad ora, risultati di rilievo in termini di stabilizzazione del territorio e di contenimento della minaccia. Nonostante gli sforzi profusi dal governo, il numero delle cellule radicali continua a crescere, non soltanto nel Sinai settentrionale, ma anche nei territori di confine con la Libia, dove sono già operativi nuclei jihadisti alleati di Wilayat Sinai e di IS, come l’Islamic Youth Shura Council. È stata dunque tale condizione di instabilità a richiedere l’intervento egiziano con i raid aerei di agosto-ottobre 2014 a Tripoli e in Cirenaica – con il supporto degli Emirati Arabi Uniti – contro le postazioni dei gruppi islamisti. Tali gruppi sono a loro volta vicini alle brigate Alba del governo di Tripoli, che possiamo definire filo-islamico. L’azione del 16-18 febbraio è stata invece diretta contro gli obiettivi militari delle cellule legate a IS, che conta tra Derna e Sirte circa un migliaio di uomini.

Nella visione egiziana si denota dunque sia un’assoluta mancanza di distinzione delle forze dello spettro islamista, sia un’identificazione dell’Islam politico – e più propriamente quello che fa riferimento alla Fratellanza Musulmana – come minaccia tanto grave quanto il terrorismo jihadista.

È vero peraltro che in questa fase le varie forme di intervento egiziano si inseriscono in un quadro di legittimità internazionale, con operazioni perseguite anche in coordinamento con altri alleati occidentali e regionali. Una situazione del genere si dimostrerebbe un’opportunità preziosissima per il Cairo per chiudere la partita con gli islamisti e i gruppi salafiti radicali, impedendo allo stesso tempo che questi possano controllare o utilizzare le zone confinarie per compiere attacchi terroristici nell’entroterra egiziano. In questo senso l’Egitto potrebbe svolgere un ruolo realmente utile a stabilizzare l’area, forse ponendo la Cirenaica sotto una sorta di proprio protettorato. In tale contesto potrebbe godere anche dell’appoggio delle forze libiche sue alleate nel parlamento di Tobruk – riconosciuto internazionalmente come legittimo ma sconfessato come tale dalla Corte suprema libica – e in quelle dell’operazione Dignità del generale “rinnegato” Khalifa Haftar (appoggiato dagli Stati Uniti). Parallelamente, l’intervento avrebbe anche il vantaggio di spezzare le alleanze strategico-militari tra i gruppi libici e quelli egiziani in funzione anti-regime e più specificatamente anti-Al-Sisi.

La forte interferenza egiziana negli affari libici sarebbe non di meno mirata a preservare l’integrità fisica di quell’importante presenza di lavoratori-migranti egiziani che vivono in Libia (un numero compreso tra le 700.000 e il 1,5 milioni di persone) e che con le loro rimesse verso l’Egitto hanno inciso per circa 20 miliardi di dollari nel 2013, evitando un loro contro-esodo verso la madrepatria.  Dal marzo 2014, ossia da quando la situazione in Libia è precipitata verso l’instabilità quasi cronica, sono già rientrati in Egitto circa 300.000 lavoratori migranti che non potranno essere riassorbiti nel tessuto sociale produttivo egiziano, viste le sue gravi e persistenti difficoltà economiche.

A ciò si aggiungerebbe infine un ultimo fattore importante, ossia quello energetico: l’Egitto dal 2013 è diventato importatore netto di energia ed è debitore di quasi 5 miliardi di dollari alle imprese internazionali del settore. In conseguenza di ciò, la Libia potrebbe rappresentare potenzialmente una soluzione per l’Egitto se, una volta riappacificata/stabilizzata e posta sotto il governo degli alleati libici di Tobruk, vendesse a prezzi inferiori di quelli attuali per il mercato egiziano.

Un pieno coinvolgimento egiziano nell’affaire libico, mirato unicamente alla tutela dei propri affari domestici, non sarebbe tuttavia immune da contro-indicazioni. Ai pericoli di una maggiore radicalizzazione dei soggetti islamisti e di un’apertura in Libia di un secondo fronte nella war on terror, che rischiano di trascinare il Paese in una guerra senza né un nemico ben delineato né un orizzonte temporale preciso, si aggiungono anche le incognite derivanti dalla ridefinizione degli equilibri con gli altri attori regionali – in particolare quelli del Golfo diversamente impegnati al loro interno sulla questione libica. Ci sarebbero gravi rischi di ulteriori spaccature nel fronte arabo e anti-islamista. Al Cairo spetterà dunque calibrare attentamene le sue prerogative e i suoi interessi nello scenario libico se non vuole trovarsi alle porte di casa un secondo Yemen, come quello vissuto da Nasser tra il 1962 e il 1967, quando il Paese si trovò invischiato in una guerra lunga e logorante che rappresentò, al pari della Guerra dei Sei Giorni, sia una pesante sconfitta, sia un duro ridimensionamento alle ambizioni di politica estera egiziana.