La coalizione giallo-nera che ha vinto le elezioni in Germania si appresterebbe – stando alle indiscrezioni trapelate sullo “Spiegel” – ad introdurre un’importante novità nella politica estera tedesca: il definitivo abbandono della “campagna” per un seggio permanente alle Nazioni Unite. Se il cambio di rotta fosse confermato, sarebbe una buona notizia per l’Italia, per le Nazioni Unite e per l’Unione Europea.
Buona notizia per l’Italia, innanzitutto, perché rimuoverebbe quella che da quindici anni a questa parte è una perenne fonte di attrito fra i due Paesi.
Vi è stata un’epoca in cui la collaborazione fra Italia e Germania produceva eccellenti risultati, condizionando in materia determinante l’agenda europea. Ma il bilancio degli ultimi anni è stato piuttosto deludente. Né la tanto decantata sintonia all’interno della “Convenzione sul futuro dell’Europa” né la convergenza di interessi nelle successive Conferenze Intergovernative si sono tradotte in iniziative concrete. E l’idea di creare una “partnership privilegiata” è rimasta una buona formula di maniera.
Diversi fattori hanno impedito di far meglio. Non c’è dubbio, ad esempio, che la priorità per la Germania resta il rapporto con Parigi e che i tedeschi sono poco inclini ai “giri di valzer”. Tuttavia, l’impedimento principale al matrimonio italo-tedesco è stato probabilmente proprio la questione della riforma delle Nazioni Unite. I diplomatici dei due Paesi hanno fatto dei miracoli per “metterla in quarantena” ed evitare che infettasse la totalità delle relazioni bilaterali. Ma risulta difficile stringersi la mano sui dossier europei mentre ci si accapiglia su quelli onusiani. Per chi si occupa di Nazioni Unite a Berlino, l’Italia resta il principale ostacolo sulla strada del riconoscimento di un giusto “status” internazionale per il proprio Paese. E viceversa, per chi si occupa di Nazioni Unite a Roma, una vittoria della Germania al Palazzo di vetro equivarrebbe ad un declassamento dell’Italia a potenza di secondo se non di terzo rango. L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso sarebbe sparigliare le carte, possibilmente individuando un nuovo percorso comune. E il ripensamento tedesco potrebbe essere il primo, fondamentale passo.
La rinuncia tedesca ad un seggio permanente sarebbe un bene anche per le Nazioni Unite. Da tempo il palazzo di vetro è impegnato in un processo di riforma che dovrebbe dare maggiore efficienza ai lavori dell’organizzazione e dovrebbe mettere gli organismi delle NU al passo coi tempi. E il suo aspetto più rilevante, e più sensibile, è proprio la riforma del Consiglio di Sicurezza. Il tema è dibattuto da oltre quindici anni senza che si riesca a trovare un’intesa. La membership resta divisa fra quanti vorrebbero aggiungere nuovi membri permanenti al Consiglio di Sicurezza e quanti ritengono che occorrerebbe invece aumentare il numero dei seggi non permanenti, eventualmente creando nuove categorie di seggi di lunga durata o da assegnare sulla base di fattori demografici. La Germania, assieme ad alcune medie potenze regionali come il Giappone, l’India e il Brasile, è capofila della prima cordata. L’Italia è invece ispiratrice del gruppo “Uniting for consensus” che guida la seconda. Il risultato di questa singolar tenzone è stato, finora, lo stallo più completo. Ma la rinuncia della Germania ad un seggio permanente potrebbe contribuire a sbloccare la situazione. O quantomeno a renderla meno ingarbugliata.
Infine, il ripensamento tedesco farebbe il bene dell’Europa. E’ fuori dubbio che, fino a quando l’Unione non sarà in grado di parlare con una sola voce, la politica estera comune rimarrà uno splendido progetto incompiuto. E alle Nazioni Unite, parlare con una voce fa rima con seggio europeo. Ora, la rinuncia tedesca ad un seggio nazionale non significa che la strada verso quello europeo sia spianata. Ma vuol dire se non altro che non rischia di essere definitivamente preclusa. Se la Germania riuscisse ad ottenere il tanto sospirato “posto al sole” verrebbe meno per molto tempo qualsiasi pressione verso un’ulteriore riforma del Consiglio di Sicurezza; l’Europa sarebbe, agli occhi del resto del mondo, ancora più sovra-rappresentata di quanto già non sia ora e l’ipotesi di istituire un seggio europeo sarebbe vista, nel migliore dei casi, con quella simpatia condiscendente che si riserva ai disegni impossibili: una specie di falasterio diplomatico o di progetto per la pace universale, insomma. Il risultato sarebbe una definitiva rinazionalizzazione della PESC.
La rinuncia tedesca aprirebbe invece nuove prospettive. O, se non altro, consentirebbe di avviare una riflessione serena sulla presenza europea alle Nazioni Unite. Il tormentatissimo Trattato di Lisbona, pur fra mille caveat e mille cautele, fornisce già alcuni interessanti spunti su cui lavorare, a cominciare dal rafforzamento dell’Alto Rappresentante. Da qui si può partire per escogitare meccanismi di coordinamento più stringenti a Bruxelles e New York.
Il passo successivo richiederebbe però maggiore creatività, e maggiore determinazione politica, perché la creazione di un vero e proprio seggio europeo alle Nazioni Unite imporrebbe non solo una piccola rivoluzione dei paludati assetti onusiani ma, soprattutto, un atto di grande coraggio da parte degli Stati membri dell’UE. Quanti e quali, fra loro, sono realmente disposti a rinunciare a rendite di posizione e a tradizioni consolidate per dar vita a un’autentica politica estera comune? Probabilmente, almeno in questa fase, non molti. Ma coloro che decidessero di farlo costituirebbero l’avanguardia del processo di integrazione. Recuperando quella vocazione federale che la stessa Unione Economica e Monetaria, fra allargamenti e crisi ricorrenti, sembra aver smarrito.
Bello ma irrealistico? Può darsi. Ma chi l’ha detto che, partendo dal “ravvedimento” tedesco, non si possa provare a volare alto? In fondo, in un periodo in cui latitano i “grandi progetti mobilitatori”, la battaglia per un seggio europeo alle Nazioni Unite potrebbe fornire quella scossa salutare di cui un’Unione sempre più intorpidita sembra avere urgentemente bisogno.