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Follia e terrorismo: i numeri e la psicologia

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Le statistiche dicono che il terrorismo, sia di matrice interna che internazionale, è causa di pochissime vittime rispetto ad altri fenomeni tipici delle società moderne. La coscienza civica, tuttavia, si rifiuta di considerare “naturale” un certo numero di vittime del terrorismo: in una società sana quel numero deve essere pari a zero. Di conseguenza, le statistiche contano poco; di fronte ai morti e ai feriti per terrorismo lo choc è sempre fortissimo. Tanto più in un paese come la Norvegia, che psicologicamente si sentiva al sicuro. 

Lo stesso fenomeno – lo scarto fra i numeri, che dovrebbero essere oggettivi, e le risposte sociali – vale per le tecniche di contrasto del terrorismo. Si pensi al cosiddetto “profiling”, secondo cui alcuni particolari individui – ad esempio classi di età e gruppi o “tipi” etnico-somatici – hanno una probabilità più alta di commettere atti di violenza contro i civili a fini terroristici. Si è molto discusso della tecnica del “profiling”, sopratutto a seguito dell’11 settembre 2001, quando il livello di allerta – a cominciare dai controlli di sicurezza negli aeroporti – è aumentato in particolare nei riguardi di giovani di sesso maschile provenienti da alcuni paesi islamici. Sebbene la tecnica sia tuttora controversa, essa viene utilizzata sistematicamente quasi ovunque, se non altro in modo pragmatico.

Ebbene, qui si nasconde un dilemma di sicurezza che va oltre le leggi della probabilità: la selezione preventiva di uno o più gruppi rispetto ad altri rischia di renderci ciechi di fronte a individui che manifestano tratti preoccupanti ma non rientrano in quelle categorie predefinite. In sostanza, il potenziale terrorista “non jihadista” diventa una sorta di fenomeno residuale, secondario e dunque sottovalutato. Ciò vale per i servizi di intelligence e per le forze di sicurezza, ma anche per le nostre società nel loro complesso.

Va aggiunta una riflessione importante: paradossalmente, in termini di psicologia collettiva, è più facile avere a che fare con un nemico esterno (così era ed è percepita in Occidente al Qaeda e altri gruppi militanti che hanno rivendicato attentati negli ultimi anni) piuttosto che interno. Il nemico interno –in questo caso, un norvegese della destra fondamentalista, che si professa “anti-islamico” – è per alcuni versi più insidioso perché sembra strappare il tessuto stesso della società.

Infine, il profilo ideologico che sta emergendo per Anders Breivik pone il problema di capire quanto la strage di Oslo sia solo un caso di follia isolato o possa anche segnalare l’esistenza di frange terroristiche nella reazione xenofoba all’Islam in Europa. Potranno ripetersi casi di terrorismo ispirati alle stesse motivazioni?

La risposta è sì, probabilmente. Negli ultimi dieci anni, la destra estrema europea è diventata parte, in parecchi paesi del vecchio continente, del mainstream politico. Per legittimarsi come forze accettabili di governo, i partiti di estrema destra, o della destra populista, hanno moderato le proprie posizioni iniziali. Questo processo ha consentito di metabolizzare e assorbire gran parte delle spinte xenofobe. Tuttavia, come è accaduto in modo speculare per il terrorismo di matrice opposta, di estrema sinistra, ha anche lasciato scoperte posizioni più radicali. Il nemico interno continuerà ad esistere, in Europa. Dal momento che si tratterà di atti terroristici individuali o di piccoli gruppi, i numeri resteranno ridotti. Ma come si è visto, i numeri contano meno della psicologia collettiva.