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Eurozona: yes, but

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Diciamo la verità. Risolvere la crisi greca doveva essere abbastanza semplice: si tratta, dopo tutto, del 3% del PIL dell’area euro. È diventato un compito titanico non per ragioni economiche ma per ragioni politiche. La coppia Merkel-Sarkozy (una coppia asimmetrica, in cui è la cancelliera a contare) continua a pretendere di governare l’Europa. Ma la realtà è che, di fronte alla prima crisi dell’euro, la Germania ha pensato soprattutto a gestire il proprio fronte interno. La conseguente lentezza della risposta europea ha creato il vuoto utile ai rischi di contagio. Solo arrivando sull’orlo dell’abisso, il Consiglio europeo straordinario è riuscito ad immaginare un compromesso.

Meglio che niente, si dirà. Certo. Ma un compromesso non significa una soluzione convincente. Se il Consiglio europeo avesse considerato la proposta di emettere “Eurobonds”, la soluzione convincente ci sarebbe stata. L’emissione congiunta di titoli europei, infatti, significherebbe che tutti i governi dell’area dell’euro diventano garanti del debito di ciascuno – rendendolo, così, sostenibile. Questo passo deciso verso un’Unione fiscale non è stato compiuto. Il Consiglio europeo ha fatto dei passi a metà: ha in parte coinvolto i privati, come voleva Berlino per soddisfare i propri contribuenti; ha reso più flessibili le funzioni del Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), che potrà acquistare titoli greci (svalutati) sul mercato secondario, che potrà agire in modo preventivo e che potrà ricapitalizzare le banche. Basterà? Il doppio spettro della vigilia – il tracollo della Grecia, seguito dal contagio verso Spagna ed Italia – è stato allontanato. Ma un default selettivo di Atene è ormai nelle carte. Mentre non è così chiaro cosa succederà poi: anche per questo, i famosi mercati non si sono tranquillizzati. Il cambiamento delle regole dell’EFSF è in teoria un passo avanti notevole; che garantisce la BCE. Il problema, tuttavia, è che le risorse a disposizione del Fondo salva Stati europeo (fra i 300 e i 400 miliardi di euro) non sono state aumentate. Ciò significa che il Fondo potrà forse gestire i problemi dei paesi periferici minori dell’area euro ma non certo quelli di economie medio-grandi. Specie se la crescita non ripartirà.

Quando la crisi economica di un paese come la Grecia può portare l’euro sull’orlo dell’abisso, diventa evidente che la costruzione europea non funziona. E in effetti, come sostenevano dall’inizio le voci critiche, un’unione monetaria priva di coordinamento fiscale e senza una politica di bilancio comune, non può funzionare. O meglio: funziona fino a quando non viene messa alla prova. Quando è stata messa alla prova, da un paio d’anni a questa parte, si è scoperto che non esisteva – né alla periferia dell’euro, né nel suo cuore tedesco – solidarietà politica sufficiente.

Guardiamo prima alla periferia. È vero che George Papandreou ha fatto il possibile, nei mesi scorsi, per mettere in piedi un programma economico credibile. Ma resta che la Grecia aveva truccato i suoi conti per entrare nell’euro; e resta che i suoi cittadini sembrano non avere ancora capito la posta in gioco. Di fatto, fare parte dell’euro significa perdere sovranità sulle decisioni di politica economica in modo molto più rilevante di quanto non si pensasse. Le classi politiche dei paesi deboli dell’area euro usano il vincolo esterno per attuare (in ritardo) programmi di aggiustamento economico in ogni caso necessari. Ma l’austerità “nel nome dell’Europa” ha bisogno, per essere credibile e accettata all’interno, che l’UE, come sistema di garanzia collettiva, esista davvero. 

Dilemmi diversi – ma sempre relativi al rapporto fra economia e politica dell’euro – valgono per il paese di centro, la Germania. Da alcuni anni a questa parte, i cittadini tedeschi hanno cominciato a vedere nell’Europa un onere, piuttosto che un vantaggio. Indicativo un sondaggio pubblicato nel gennaio scorso dall’Allensbach Institute: più del 70% degli intervistati non vede il futuro della Germania in Europa ma lo vede nel mondo. C’è chi dice che i tedeschi siano diventati euro-scettici. Probabilmente, sono diventati post-europei. Questo corrisponde, del resto, a uno spostamento sensibile delle proprie ragioni di scambio verso i paesi emergenti, Cina e Russia anzitutto. La vecchia Europa conta ancora molto, nell’export tedesco; conta però meno di prima. E conterà ancora meno in futuro. Insomma, ragioni nuove si sommano all’antico problema: una cultura della stabilità molto lontana da quella mediterranea e ostile – per definizione e Costituzione – ai salvataggi. Tutto questo non elimina il noto argomento: la Germania, a cominciare dalle sue banche, avrebbe parecchio da perdere dall’affondamento dell’euro. Punto che spiega il compromesso tedesco in chiave europea.

Risolvere la crisi dell’euro non è affatto una missione impossibile; se solo esistesse la volontà politica. O la capacità politica, merce rara nell’Europa di oggi, di affrontare il cuore del problema: l’Unione monetaria si spaccherà senza un coordinamento fiscale. Il Consiglio europeo straordinario è riuscito a tamponare il rischio di un collasso della moneta unica. È un risultato importante; ma che resterà temporaneo se non verranno compiuti passi ulteriori. Le nuove regole del Fondo europeo di stabilità funzioneranno solo se le risorse complessive verranno aumentate e se il Fondo diventerà effettivamente un’Agenzia del debito europea.

Quando perfino il cancelliere dello Scacchiere inglese, George Osborne, consiglia ai governi dell’euro di andare verso un’unione più stretta, vuol dire che il rimedio è evidente. Anche ai paesi che ne resteranno al di fuori, come appunto la Gran Bretagna. Che oggi guarda senza imbarazzi a un’Europa a due velocità. E che ormai teme una cosa sola: non il successo ma il fallimento di una moneta che non avrebbe mai voluto.