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“Fly home to vote remain”

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“Fly home to vote remain è il leitmotiv delle ultime settimane a Bruxelles. Ryanair l’ha fatto suo, lanciando un’offerta che permetta ai cittadini britannici di volare a 19.99 € per tornare a votare al referendum del 23 giugno. Anche se molti expat ricorreranno al voto postale o per procura, è la prova di un sentire diffuso. La campagna referendaria ha inevitabili riflessi su Bruxelles – anche se non è certo diretta ai britannici che ci vivono. Questi, infatti, ad esclusione di alcune eccezioni – conclamate nel caso degli eurodeputati UKIP -, sono un remain scontato.

La quasi totalità di loro vive in effetti il referendum come una mannaia pronta a calare sulla propria testa. Attendono con apprensione l’approssimarsi del voto, consapevoli del clima viziato in cui si svolge il dibattito: la Gran Bretagna non è infatti affatto immune al virus paneuropeo che fa di Bruxelles uno dei bersagli preferiti dello scontento diffuso tra le opinioni pubbliche di ogni paese, scontento che dovrebbe invece essere più correttamente diretto ai singoli governi nazionali, responsabili delle grandi scelte d’indirizzo dell’Unione Europea. La narrativa euroscettica, nel caso del Regno Unito, è pure amplificata dalla storia e dal carattere insulare e isolazionista della nazione britannica.

A ciò si aggiunge, per i britannici impiegati nelle istituzioni europee, l’incertezza sul futuro professionale e, in definitiva, sui progetti di vita. Non è ancora chiaro come la questione verrà gestita in caso di Brexit, anche se i funzionari a tempo indeterminato non legati ad attività strettamente politiche non dovrebbero perdere il posto.

Diversa è la situazione per i lavoratori di nazionalità britannica con contratti a termine nelle istituzioni e, in particolare, per i dipendenti dei gruppi politici al Parlamento; per loro la questione rimane sospesa. Nel caso vinca il leave, poi, nuove assunzioni sono escluse. E dunque, benché siano giunte in alcuni casi rassicurazioni sul mantenimento dei posti di lavoro, e in caso contrario, su considerevoli buonuscite, negli ultimi mesi le richieste di acquisizione e riconoscimento di nazionalità doppia hanno ricevuto un’impennata senza precedenti. A completare il quadro, vi è il fatto che i cittadini britannici all’estero da più di 15 anni non potranno nemmeno votare; una petizione al riguardo al governo e al Parlamento britannici si è conclusa in un nulla di fatto. 

Il sentimento prevalente tra gli expat britannici a Bruxelles è però forse quello della frustrazione: per i toni, ma soprattutto per i (non) contenuti della campagna che si svolge in patria. La battaglia per diffondere nel Regno Unito la consapevolezza dei benefici dell’appartenenza all’UE e dei gravi costi di un’eventuale uscita pare loro, infatti, senza speranza.

Il focus principale della campagna dei Leavers è sull’immigrazione come causa dei problemi di sicurezza, della mancanza di lavoro e delle difficoltà economiche – senza distinzione sull’origine intra o extra UE degli immigrati. L’Unione aprirebbe infatti le porte dello UK a terroristi e parassiti del welfare, ma non solo: ruberebbe essa stessa ai contribuenti britannici per finanziare inutili burocrazie ed il debito di Stati membri fannulloni. I Remainders faticano a contrastare questi argomenti che fanno appello alle paure più pressanti della popolazione; essi tentano essenzialmente di mostrare, con un approccio più scientifico, gli effetti devastanti di una possibile Brexit su sistema delle pensioni, dei prezzi e mercato del lavoro (operazione-paradossalmente-battezzata dai Leavers più accesi “project fear”). Il messaggio che cercano di trasmettere é che l’Unione europea ha bisogno della Gran Bretagna almeno quanto la Gran Bretagna ha bisogno dell’Unione europea.

Contro il Brexit si è espresso comunque gran parte dell’establishment europeo. Si va dall’epiteto di “disertori” con cui il Presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha apostrofato i britannici in caso di Brexit, ai toni chirurgicamente misurati della Cancelliera tedesca, all’intervento delle associazioni imprenditoriali (inglesi come della federazione Business Europe), a diversi studi economici. Questi ultimi si sono impegnati a dimostrare l’apporto positivo, anzi indispensabile, degli immigrati tanto per tenuta del sistema sociale e della competitività del paese (con particolare riferimento agli immigrati UE), quanto per il buon funzionamento del mercato del lavoro, confutando così la principale tesi dei Leavers.

Sono poi sorte iniziative spontanee, volte a mostrare ai “cugini” d’oltremanica che il continente vuol loro bene, e tiene alla loro permanenza: gli studenti del Collegio d’Europa, l’istituto fondato con l’ambizione di formare una classe dirigente europea ed europeista, hanno girato un video appello intitolato #UKstaywithme, e una cittadina tedesca residente a Londra ha lanciato la campagna “Hug a Brit”. Al di là delle statistiche, Brexit significherebbe, infatti, anche la rottura di una tradizione culturale comune e, in modo tangibile e immediato, avrebbe un impatto rivoluzionario sulle vite di tutti quegli europei che vivono e lavorano nel Regno Unito.

A dare man forte sul tema è intervenuto anche Obama, in visita in Europa a fine Aprile. Il suo discorso al sapore di “The UK is going to be in the back of the queue [for trade agreements]” ha segnato un punto a favore dei Remainders – anche grazie alla popolarità di cui il Presidente americano gode. I Leavers sostengono infatti che la special relationship UK-USA, risorta secondo loro grazie al Brexit, frutterebbe, tra gli altri vantaggi, accordi commerciali migliori di quelli tra UE e USA.

Il sentire comune prevalente a Bruxelles  è che il Brexit infliggerebbe una ferita profonda all’Unione e non tanto, non solo, per il venir meno del peso specifico britannico, ma perché il progetto di integrazione rischia di uscirne mutilato: perderebbe la sua forza propulsiva  e scatenerebbe altresì un probabile effetto a catena. Sarebbe una catastrofe economica per il Regno Unito in primis. Londra passerebbe inoltre dal ruolo di co-protagonista, cioè parte di quell’attore di dimensione globale che è l’UE, a quello di Stato marginale sullo scacchiere mondiale: costretta a subire le decisioni invece che contribuire a plasmarle.

Non sembra però che la logica dei numeri e la realtà dei fatti facciano breccia nel dibattito inglese. Ne è prova lampante la campagna referendaria in Spagna, paese che ospita una nutrita comunità britannica (300.000 registrati ma almeno il doppio secondo altre stime) composta soprattutto da anziani che vanno a trascorrere al sole gli anni della pensione. Benché si tratti a tutti gli effetti di emigrati, che godono in prima persona delle agevolazioni della membership europea, buona parte di loro milita attivamente in favore del Brexit e della chiusura delle frontiere contro la minaccia di “altri” immigrati.

Qualunque sia l’esito – questo gli expat britannici a Bruxelles lo sanno bene –  dopo il voto si aprirà un nuovo capitolo. Il primo ministro inglese David Cameron avrebbe voluto maneggiare il referendum semplicemente come un’arma politica al proprio servizio: per contenere da un lato l’euroscetticismo dell’ettorato e dell’ala estremista del suo partito, nonchè la crescita dei nazionalisti dell’UKIP di Nigel Farage, e ottenere, dall’altro, nuove concessioni – in cambio della permanenza nell’Unione – dai partner europei. Invece, il vastissimo consenso elettorale ottenuto alle elezioni del 2015, ponendolo alla guida di un governo monocolore, lo hanno stretto in una morsa che potrebbe essergli letale. Il dibattito referendario ha infatti finito per risvegliare tutti gli spettri della tormentata relazione tra il Regno Unito e il resto del continente; le sue conseguenze saranno ben più profonde del previsto e rischiano di andare ben al di là del rapporto UE-Gran Bretagna.

Inannzitutto, in caso di Brexit, è probabile che dal 24 giugno Londra non dovrà solo negoziare i termini del divorzio dall’Unione. Dalla Scozia e dall’Irlanda del Nord, territori in cui la cittadinanza non vuole lasciare l’UE, arriverebbe una nuova, forte, ondata indipendentista che potrebbe portare alla fine dell’unità del paese.

Sono poi prevedibili altre importanti ricadute interne. Cameron, che sul “remain” si gioca anche la sua rischiosa partita personale (aperta dal discorso di Bloomberg nel gennaio del 2013) potrebbe essere scalzato dalla leadership dei Tory se il “leave” prevalesse: il partito cadrebbe nelle mani della sua ala euroscettica, guidata dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson, impegnato infatti a tempo pieno, e con virulenza, nella campagna. Se a ciò si affianca la presenza di Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti, risulta evidente una polarizzazione degli orientamenti politici che male si accompagna con l’equilibrio del sistema politico bipolare più antico del mondo.

Il referendum del 23 giugno ha dunque molteplici valenze, e, anche in ragione di ciò, il voto sarà in larga parte emotivo. A Bruxelles si segue quindi con trepidazione la cronaca: qualsiasi novità in grado di dare sostegno agli argomenti dei Leavers– che sia l’arrivo di un nuovo barcone carico di immigrati nella Manica, l’implicazione di Cameron nello scandalo Panama Papers, un nuovo attentato terroristico in Europa – potrebbe risultare decisiva nell’orientare l’imprevedibile comportamento elettorale di quella buona fetta di britannici ancora indecisa.