international analysis and commentary

Dopo il Muro: dal bipolarismo al multipolarismo asimmetrico

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Il crollo del Muro di Berlino, e ancor più il collasso dell’URSS due anni più tardi, furono quasi unanimemente percepiti come i primi passi verso la creazione di un nuovo assetto globale. Il superamento della gabbia imposta dai due “blocchi” contrapposti poteva far emergere un più flessibile sistema multipolare – auspicabilmente soggetto a una gestione multilaterale e consensuale almeno su alcuni grandi temi di rilevanza globale. Era una visione con alcuni fondamenti nella precedente evoluzione delle relazioni internazionali, ma anche con diversi limiti e incongruenze.

In particolare, presupponeva un’interpretazione – alquanto semplicistica – della guerra fredda come una anomalia irripetibile, cioè un sistema realmente bipolare che aveva prodotto l’esito di una schiacciante (eppure pacifica) vittoria di una parte sull’altra. Il problema di questa visione stava soprattutto nel fatto che in effetti almeno un’altra grande anomalia non veniva superata con la caduta del Muro né con la dissoluzione dell’URSS: gli Stati Uniti avevano svolto un ruolo unico come vera potenza globale a tutto tondo, perfino rispetto alla stessa Unione Sovietica finché questa era sembrata un avversario paritario. Dopo il 1989-91, restava così aperto il quesito su come Washington avrebbe ora usato la propria posizione di preminenza incontrastata.

Il multipolarismo parziale
L’influenza internazionale degli Stati Uniti, in quanto potenza vincitrice della guerra fredda, era cresciuta “per default” con il collasso sovietico, e una tentazione “unipolare”, almeno temporanea, era a quel punto comprensibile. C’era, è vero, il desiderio (da parte di molti leader americani) di condividere con altri gli oneri per il mantenimento dell’ordine globale, ma certo anche la naturale propensione a vedersi come primus inter pares. Fatto altrettanto importante, tale analisi era quasi unanime, cioè vedeva d’accordo anche i maggiori alleati di Washington e perfino molti degli avversari o dei “concorrenti” (immediati o potenziali). In effetti, l’assetto internazionale, soprattutto nel campo della sicurezza e difesa, si è così ristrutturato attorno a quell’assunto quasi-unipolare, nel bene e nel male.

Che poi l’unipolarismo – soprattutto l’evidente superiorità americana in campo militare – dovesse o potesse tradursi nella forma dell’unilateralismo è altra questione, ma intanto la percezione di un ruolo americano preminente e ineguagliato era assai diffusa.

In altre parole, l’aspettativa largamente condivisa nei primi anni Novanta era che si stesse consolidando un ordine falsamente o superficialmente multipolare: si trattava piuttosto di un ordine “a raggiera”, con al centro gli Stati Uniti (e i loro più stretti alleati, cioè una sorta di Occidente allargato, comprendente paesi come Giappone, Australia, Corea del sud). Le tendenze multipolari erano presenti sottotraccia, ma non potevano dispiegare la loro forza nell’arco di pochi anni; nel frattempo però le regole (scritte e non scritte) del sistema internazionale venivano (ri)definite.

Su questo sfondo, si sono così sviluppati, nella prima fase del post-guerra fredda, due filoni di dibattito (sia teorico/accademico, sia tra i decisori politici). Il primo è relativo al futuro dell’Occidente in senso proprio, cioè dei rapporti transatlantici – con denominazioni variabili, dal pilastro europeo della NATO all’identità europea di difesa, fino all’Unione Europea come “attore” strategico a tutti gli effetti. In estrema sintesi, gli Stati Uniti hanno da allora chiesto con insistenza agli europei di contribuire in misura maggiore agli sforzi militari (e a volte al sostegno economico ad alcuni paesi in crisi), mentre gli europei hanno sistematicamente cercato di accrescere il loro peso decisionale aggregato nel contesto transatlantico. Una discussione tuttora aperta o se si vuole irrisolta, profondamente segnata dall’incapacità europea di trasformare la UE in una struttura coesa e di contribuire sul piano della sicurezza in modo commensurato al proprio peso economico e demografico.

Il secondo filone di dibattito ha subito un’evoluzione più rapida e significativa: le potenze emergenti erano considerate, almeno per tutti gli anni Novanta potenze “immature”, incomplete e in qualche modo junior. L’obiettivo primario era la loro progressiva integrazione nella rete delle regole internazionali – esse stesse di marca occidentale – a cominciare da quelle commerciali. Si spiega così, in particolare, la procedura (relativamente) rapida adottata per l’ingresso della Cina nel WTO (con la conclusione dei negoziati nel 1999 e la formalizzazione nel 2001). La logica era quella di puntare su una forma di interdipendenza “virtuosa” che avrebbe legato i destini delle potenze in ascesa a quelle dei paesi più favorevoli allo status quo per evitare pericolosi revanscismi o contestazioni dirette. Sono però emersi seri ostacoli lungo la via di un ampio consenso sulle regole, che hanno spesso impedito di affrontare in modo coordinato i problemi finanziari e commerciali di tipo sistemico, soprattutto in settori chiave come il cibo e l’acqua o le fonti energetiche.

Sicurezza ed economia: riassetti problematici e asimmetrici
In tale contesto fluido, gli eventi hanno poi forzato o accelerato una serie di decisioni difficili, come sempre accade nelle fasi di passaggio.

In sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in particolare, la malcelata speranza era che sostanzialmente Russia e Cina sarebbero diventati attori acquiescenti, come in qualche modo sembrò accadere nel caso della risposta all’invasione irachena del Kuwait nel 1991. Quell’episodio si è rivelato l’eccezione invece della regola, visti i duri contrasti che hanno accompagnato gli interventi della NATO nella ex-Jugoslavia dalla metà del decennio, fino a quello in Kosovo nel 1999.

La parabola dell’interventismo “umanitario” ha presto evidenziato tutte le difficoltà di creare e mantenere un vasto consenso su operazioni diplomatico-militari di stabilizzazione e/o pacificazione. Le ragioni sono molte e complesse, ma intanto è problematica la composizione stessa del principale organo deputato a gestire le crisi internazionali, cioè il Consiglio di Sicurezza: come ben noto, esso non è affatto pienamente rappresentativo dell’attuale mappa del potere globale; il sistema del veto per i cinque membri permanenti crea ovviamente la tendenza allo stallo decisionale (dunque anche uno stallo giuridico); e in ogni caso (in quanto gruppo ristretto, seppure a parziale rotazione) fornisce al più una possibile interpretazione del diritto internazionale, non sempre in modo coerente nel tempo. Le accuse di adottare “doppi standard” sono il tipico meccanismo politico che produce lo stallo e riflette le divergenze tra i membri del Consiglio. A ciò si deve aggiungere che in termini operativi la gestione di interventi multinazionali complessi in territorio ostile ha mostrato gravi carenze, spingendo i paesi più attivi a sviluppare pragmaticamente delle procedure meno vincolate al Quartier Generale di New York e al Segretariato Generale.

Tutti questi limiti sono diventati macroscopici nei momenti delle decisioni più controverse, finendo per minare la credibilità e l’agibilità dell’intero “sistema ONU”. Un effetto ugualmente grave è stato poi la creazione di una spaccatura tra i paesi occidentali e la quasi totalità di quelli “emergenti” sulle violazioni della sovranità statuale – viste come a volte inevitabili e perfino moralmente giuste dai primi, e invece sempre inaccettabili dai secondi (almeno in teoria). Tale profonda divergenza continua a complicare la costruzione di un minimo comun denominatore a tutt’oggi, anche se numerose ambiguità e contraddizioni si sono accumulate da entrambe le parti – come conferma il caso ucraino e la posizione quasi imbarazzata assunta da Pechino in proposito.

Va peraltro riconosciuto che il rapporto sempre delicato tra sovranità nazionale, diritto e sicurezza internazionale, è stato complicato dalle vicende seguite all’11 settembre 2001, quando alla formula dell’ “internazionalismo liberale” si è sostituito un tentativo di vigorosa affermazione di leadership americana che più propriamente si può definire “unilateralismo”. In ogni caso, le ambiguità di un sistema solo parzialmente multipolare erano evidenti già prima di quella data.

Sul versante economico, la presunzione di una netta superiorità dei modelli occidentali (e della centralità americana in tale contesto) è stata l’architrave del sistema mondiale di mercato a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La sfida è stata quella di gestire e se possibile guidare il processo di globalizzazione – per sua natura incompleto e certamente carico di gravi asimmetrie. Anche sul piano della governance economica in senso ampio, si è adottata in certa misura la stessa impostazione “a raggiera” che abbiamo identificato nel campo della sicurezza. Essa si è riflessa nell’ampliamento del G7 come G8 (rivelatosi non poco problematico), e soprattutto la più profonda trasformazione degli anni 2000, cioè il passaggio al G20 – un luogo di incontro ben più inclusivo dei circoli tradizionali che avrebbe dovuto fornire le linee-guida per la governance globale su almeno alcune dei dossier prioritari. Non è certo un caso che il G20 sia stato forgiato (in una prima incarnazione) nella ricerca di una risposta alla cosiddetta “crisi asiatica” (finanziaria e valutaria) del 1997, cioè una crisi di nuovo tipo dovuta alla crescita tumultuosa di quella regione e alla sua esposizione ai flussi finanziari globali. Il passo successivo – un G20 rafforzato – è arrivato con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2008, quando questo foro di consultazione è stato in effetti utilizzato per concordare alcune misure di emergenza. Il G20 ha però inevitabilmente mostrato i suoi limiti, al di là della fase emergenziale. Nel frattempo, abbiamo assistito allo stallo dei grandi negoziati globali come il Doha Round sul commercio e le conferenze sul cambiamento climatico. Sono così tornati in auge gli accordi regionali, ma spesso anche varie forme di “bilateralismo”; si pensi in particolare al peculiare rapporto quasi simbiotico tra le economie statunitense e cinese (per cui gli squilibri interni dell’economia americana vengono in gran parte compensati da quelli dell’economia cinese, e viceversa). In tal senso, sul piano economico si deve guardare più a una forma di bipolarismo USA-Cina che non a qualsiasi tipo di ordine multipolare. È vero che gli scambi transatlantici restano un unicum su scala globale per dimensioni e intensità, ma il peculiare rapporto sino-americano è stato (ed è tuttora) assolutamente decisivo per mantenere anche il resto del sistema mondiale in equilibrio dinamico.

I salti della storia: 2001 e 2008
È necessario, come spesso avviene nelle categorizzazioni storiche, suddividere in modo più preciso questo periodo – un quarto di secolo – in tratte più brevi, a maggior ragione vista la forte accelerazione dei mutamenti nel sistema internazionale a cui stiamo tuttora assistendo. Appare ragionevole indicare due grandi cesure nell’arco 1989-2014: la prima è l’11 settembre 2001, e la seconda è l’avvio della grande crisi finanziaria nel 2008. Questi due passaggi hanno spostato l’asse del multipolarismo in direzioni parzialmente inattese, e in modo piuttosto repentino. Gli attentati dell’11 settembre sul suolo americano hanno spinto l’amministrazione di George W. Bush a fare leva sulla potenza militare in modo diretto e rifiutando i vincoli sia di un’interpretazione ristretta del diritto internazionale sia di qualsiasi informale “concerto delle potenze”.

Una conclusione da trarre fin qui è che – come ha mostrato proprio il dopo-11 settembre – il grado di interferenza esercitato (o potenzialmente esercitabile) dagli Stati Uniti resta incomparabile, su scala globale. Ciò è vero lungo tutto lo spettro degli strumenti di potenza: rapporti diplomatici, cooperazione militare (military to military), disponibilità di basi militari e proiezione di potenza aeronavale a grande distanza, rete di intelligence, ma anche rapporti economico-commerciali, e infine penetrazione culturale (sia a livello dell’alta formazione e delle discipline specialistiche, sia a quello della pop culture). Il grado di successo delle politiche perseguite richiede altre valutazioni: l’efficacia degli interventi coercitivi sembra essere limitata, soprattutto a causa delle numerose conseguenze indesiderate – a volte scarsamente ponderate. Resta però il fatto che, nonostante le oggettive difficoltà sperimentate negli ultimi anni a causa di varie forme di resistenza da parte di partner più assertivi, e talvolta di rigetto culturale (anche con paesi tradizionalmente alleati), gli Stati Uniti si sono confermati nell’arco del post-guerra fredda come un paese disposto a “fare da solo”, in circostante ritenute particolarmente gravi. Un dato altrettanto rilevante – e forse sorprendente – è che l’assenza di un ruolo diretto di Washington nelle crisi regionali stimola una forte preoccupazione negli attori regionali, potrebbe dirsi quasi quanto l’eccesso di attivismo americano.

Una seconda conclusione – evidenziata dalla crisi finanziaria del 2008 – è che un forte scossone all’economia americana si ripercuote su scala planetaria, il che significa che anche il declino relativo del peso di quel sistema economico (in termini di PIL) non ne riduce di molto l’importanza. La catena di trasmissione finanziaria è stata molto efficiente, provocando estesi effetti a cascata nelle economie reali di mezzo mondo (dai debiti sovrani ai prezzi delle materie prime, fino alla disoccupazione). Ovviamente, chi è stato colpito più duramente soffriva già di carenze strutturali, per cui le ambizioni europee di “co-leadership” ne sono uscite nettamente ridimensionate. Ma certo l’effetto contagio è stato rapido e pervasivo ben oltre l’Europa. Di nuovo, un fenomeno di irraggiamento più che di interazione tra “poli” multipli.

Vecchi e nuovi trend, 25 anni dopo
La parabola di questo quarto di secolo è segnata soprattutto dal tentativo – spesso frustrato – di gestire in forma multilaterale quello che possiamo definire un “multipolarismo asimmetrico”, cioè fortemente sbilanciato a favore degli Stati Uniti. È stato possibile per alcuni paesi o gruppi di paesi, a più riprese, porre dei seri limiti all’azione americana, ma senza la diretta partecipazione americana – e a maggior ragione contro la volontà americana – altri hanno saputo raggiungere soltanto obiettivi strettamente locali o temporanei. Anzi, si è data spesso la situazione in cui sono state le stesse potenze regionali ad auspicare (non sempre apertamente) un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti per perseguire i propri obiettivi: è il caso della recente volontà largamente condivisa di fermare l’avanzata dell’ISIS e della galassia fondamentalista in varie zone del Medio Oriente, per cui Washington ha dopo molto esitazioni deciso di esercitare nuovamente un’azione diretta e coercitiva anche a fini di deterrenza verso altri gruppi o analoghe circostanze future. Gli interi equilibri di un’ampia regione stavano letteralmente andando in frantumi – e resta da verificare quanto e come tale processo si possa frenare e invertire.

Altro aspetto decisivo è stato quello delle regole del gioco: alcuni membri del “circolo multipolare” stanno testando (chi con maggiore, chi con minore intensità) la disponibilità occidentale ad applicare il proprio criterio pragmatico (cioè non puramente formale) di comportamento ad altri: le regole del diritto internazionale possono, in casi definiti come “eccezionali” essere violate o quantomeno forzate. Si pensi all’intervento per il Kosovo nel 1999 (che la NATO stessa giustificò come una parziale anomalia, cioè un evento eccezionale) o, in modo più evidente, all’intervento in Iraq nel 2003. Il fatto stesso che vi siano stati dibattiti molto serrati tra i paesi occidentali non è naturalmente sfuggito agli osservatori esterni al club transatlantico, a conferma della delicatezza di alcune interpretazioni del diritto di ingerenza e/o di intervento militare. Dalle truppe in Mali ai raid in Siria, dai bombardamenti in Libia ai droni nello Yemen, Somalia e Pakistan, le azioni dei paesi occidentali (non sempre e non solo degli Stati Uniti) hanno creato diversi casi molto ambigui – e hanno tra l’altro reso difficile replicare in modo semplicistico alle azioni intraprese dalla Russia in Ucraina nel corso del 2014. Potremmo definirlo uno dei volti oscuri del multipolarismo.

La combinazione di questi due aspetti – interesse diffuso a incoraggiare comunque un ruolo costruttivo degli Stati Uniti, e regole del gioco non chiare e spesso forzate da più parti – apre però uno spiraglio interessante e forse positivo: a fronte del senso di disordine crescente e di sfarinamento dei confini statuali, esiste la base condivisa per un multipolarismo più maturo (per quanto ancora asimmetrico). E potrebbero crearsi le condizioni per affrontare in modo più propriamente multilaterale alcune questioni regionali: si pensi alla maggiore flessibilità diplomatica che sembra emergere nel ruolo internazionale di paesi come l’Iran, alla sostanziale prudenza mostrata dalla Cina perfino nelle dispute territoriali che la riguardano più direttamente in Asia orientale, o alla cautela adottata dall’Occidente nel segnalare alla Russia che certi comportamenti avranno costi elevati. Sono tutti segnali da verificare, non ancora risultati concreti; ma possono portarci verso un multipolarismo meno instabile.

 

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata nel n.6/2014 della rivista Italianieuropei.