Ha ragione Marta Dassù: l’Italia è ormai un “incrocio rischioso” con semafori asincroni, nel quale s’incontrano – e purtroppo sempre più spesso si scontrano – i flussi geopolitici che circondano l’Europa: Libia, Ucraina, ISIS, per restare su un piano superficiale.
Va riconosciuta a Palazzo Chigi la lucidità di comprendere dal principio che per il TTIP, l’accordo UE/USA su commercio e investimenti, passa gran parte del futuro dell’Occidente in uno scenario contraddistinto ormai dal disordine globale.
A fare capolino c’è l’ombra ingombrante del Dragone cinese e della sua crescente presenza, che ci riporta con durezza alla realtà: nell’Europa dei trattati comuni ma dalle politiche estere autonome e divergenti, ognuno fa per sé. E il risultato è, ahinoi, sotto gli occhi di tutti.
Non ci voleva certo la reazione stizzita degli Stati Uniti durante l’iniziale immobilismo di Bruxelles nella crisi di Kiev per comprendere che, così com’è ora, l’Europa rappresenta il vero anello debole del sistema internazionale.
In questa matassa di per sé difficile da sbrogliare l’anello più debole è senza dubbio la Penisola. Esposta com’è alle contraddizioni di una visione strategica tanto variegata quanto incerta, l’Italia nel suo complesso sembra non essere pienamente consapevole dei rischi che corre a lungo andare. Molto potrebbe essere fatto per rendere il nostro Paese meno fragile, a cominciare dalla creazione di una solida cultura dell’interesse nazionale, eppure rimane in gran parte su un piano teorico.
Sarebbe però scorretto, come fanno alcuni osservatori, addebitare in toto all’Italia la responsabilità del ruolo marginale dell’Europa sullo scenario internazionale. Bruxelles non è Washington: il vecchio continente non sarà mai, almeno in tempi brevi, una potenza militare sul modello americano, ma potrebbe essere un grande attore diplomatico, a volte decisivo, in grado di mescolare leadership, soft power e una notevole forza di fuoco economica.
Finora, l’integrazione europea, complice lo strapotere tedesco, è stata un esperimento a metà: il vecchio continente ha perseguito come obiettivo – a torto o a ragione e con risultati discutibili – la strada del risanamento fiscale, della stabilità finanziaria e (per chi è riuscito a consolidare l’export su quelle basi) di una maggiore competitività sui mercati internazionali.
Contestualmente ha deciso però di non dire la sua, di non partecipare ai tavoli che contano con una voce sola, credendo che in un mondo globalizzato potessero ancora reggere soluzioni locali e personalismi, nei quali si sono intelligentemente insinuate Mosca e Pechino.
A non volere un’Europa politica, tradendo in parte la visione dei suoi stessi padri fondatori, è stata in primo luogo proprio la Germania. Il ricongiungimento tra Ovest ed Est ha visto cambiare fortemente la politica della Repubblica federale tedesca, che si è sentita via via meno vincolata a una visione atlantista che era stata il suo caposaldo fino alla caduta del Muro – e che a sua volta era strettamente legata a una certa concezione dell’integrazione europea.
Ha optato in questi anni per forti tagli sia del personale militare, sia del budget destinato alla difesa, privilegiando un atteggiamento “pacifista” che l’ha tenuta fuori da alcuni importanti interventi (tra cui l’Iraq nel 2003) e ha preoccupato non poco i suoi alleati, specialmente quelli in seno alla NATO.
Va da sé che una Germania concentrata a coltivare una “dottrina del non intervento” che abbia come focus la tutela del proprio particolare, veda come fumo negli occhi tanto una maggiore cessione di sovranità su temi come questi, quanto la nascita auspicata da più parti di una difesa europea che ottimizzi e metta a sistema le risorse degli Stati membri e consenta loro al contempo di negoziare generando maggiore massa critica. A ciò dobbiamo aggiungere il modello export-led della Germania (criticato pesantemente anche dal Tesoro USA), e le ambiguità di una BCE lontana dalle prerogative della Fed (una scelta, di nuovo, soprattutto tedesca). Questo mix crea una situazione che rischia di allargare ancora di più le due sponde dell’Atlantico, con piena soddisfazione di chi altrove si frega le mani.
Pochi giorni fa, pur mantenendo in equilibrio la sua bilancia commerciale grazie agli scambi con i Paesi ormai non più emergenti, il governo tedesco ha tagliato le sue previsioni di crescita per questo e il prossimo anno da +1,8 e +2% a +1,2 e +1,3%, decretando anche sul piano ufficiale il fallimento delle politiche di rigore imposte a tutti gli Stati membri della UE. La storia dei prossimi anni potrebbe sancire una nuova sconfitta per ciò che concerne la politica estera dell’Unione, ma purtroppo con risultati molto più nefasti, i cui primi effetti si avvertono proprio su un Paese di “faglie”, come l’Italia. Roma, così come Parigi del resto, non può farcela da sola.
Ancora una volta il futuro del vecchio continente si decide a Berlino e sarebbe miope non accorgersene. Nei giorni della riunificazione, l’allora cancelliere Helmut Kohl credeva che bisognasse tendere a una “Germania europea” e non una “Europa tedesca”. A distanza di circa 25 anni, il suo rimane un monito quanto mai attuale.