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La Francia come nuovo malato d’Europa?

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Un paese insicuro e senza entusiasmo; bloccato da un sistema produttivo che non riesce a riacquistare dinamismo, appesantito da crescenti divergenze; avvelenato da un clima politico pesante, dalla sfiducia diffusa e dalle lotte in seno ai principali partiti. La Francia che si affaccia alla seconda metà del mandato presidenziale di François Hollande è tutt’altro che redressée (rimessa in sesto), come il candidato socialista aveva promesso nel 2012.

Parigi soffre non solo dei suoi mali interni, ma anche di una crescente difficoltà nell’adattarsi all’Europa a trazione tedesca degli ultimi anni. Nei fatti, si stenta oggi a vedere traccia di quell’asse con Berlino che in passato costituiva la guida dell’Unione Europea: la Germania non è mai apparsa così distante dalla complicata situazione del suo vicino, e il salto qualitativo nel rapporto tra i due paesi è reso palpabile dalla sfida economica ora in corso a Bruxelles.

Non è ancora chiaro quanto questo salto sia profondo e definitivo. Tre anni fa i socialisti di Hollande volevano andare al potere per sbarazzarsi delle politiche di austerità decise da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, ponendosi alla guida di tutta la sinistra europea; piano che prevedeva la parallela vittoria, l’anno successivo, dei socialdemocratici a Berlino. Dunque, l’opposizione al “rigore” aveva un respiro interamente politico, cioè quello di una nuova medicina per un paziente, l’Unione Europea, che stava dimostrando di mal sopportare le cure fin lì ricevute.

Tuttavia, le cose andarono diversamente. Intanto, Angela Merkel stravinse le elezioni: ogni alternativa ne uscì indebolita. E poi, la situazione interna della Francia prese a peggiorare a un ritmo imprevedibile; la disoccupazione e la spesa pubblica crescevano, aprendo le porte alla stagnazione: secondo il FMI, per ottenere una crescita dell’1% è stato necessario al paese l’intero triennio 2012-14, quando la Germania nello stesso periodo è cresciuta del 2,8%. Intanto, il debito pubblico francese saliva fino ad avvicinarsi al 100% rispetto al PIL. A farne le spese erano, oltre alle tasche dei cittadini e a varie linee di bilancio drasticamente ridotte, la popolarità del presidente e dell’esecutivo socialista. L’elettorato castigava i governanti, percepiti per di più come litigiosi e inefficaci, non solo in favore dell’opposizione classica di centro-destra, ma anche per premiare il nazional-populista ed antieuropeista Front National (FN) di Marine Le Pen, che risultava clamorosamente primo partito alle elezioni europee dello scorso maggio.

Per far fronte al terremoto Hollande ha così cambiato il governo, nominando Primo Ministro il giovane moderato Manuel Valls con il compito di ricucire con il centro e la destra dell’UMP, ammorbidire la loro opposizione per trovare sponde nelle difficili scelte economiche e isolare il FN. Questa mossa ha però lacerato  il partito, con l’ala sinistra tentata dall’idea di una federazione radicale stile Syriza, il grosso dei deputati imbarcato per forza o per amore nel progetto di larghe intese, le partite personali per le future presidenziali già avviate, e gli elettori più disamorati che mai.

Questo il quadro alla vigilia dello scontro tra la Francia e la nuova Commissione Europea del conservatore lussemburghese Jean-Claude Juncker. Non si tratta più di un’opposizione politica: i principi dell’austerità non sono in discussione per ragioni di principio, ma semmai per l’impossibilità pratica di applicarli in pieno senza provocare disastri sociali. La seconda economia dell’eurozona è, da sola, sul banco degli imputati, per l’incapacità di contenere il suo debito. Il drastico piano finanziario – 21 miliardi di ulteriori tagli alla spesa, di cui 10 alle politiche sociali e otto ai ministeri – non basta per rispettare la promessa, fatta due anni fa, di riportare il deficit sotto il 3% del PIL. Secondo le stime più ottimistiche, questo resterà al 4,3% nel 2015, segnando il decimo anno consecutivo di sforamento del Patto di Stabilità.

È una situazione giustificata come l’unica alternativa al caos: con più rigore, dice Parigi, si spianerebbe la strada al Front National e si distruggerebbe la residua coesione interna dei socialisti, portando al tracollo il governo e mettendo a rischio la stessa Unione Europea. Secondo le regole della UE – la Francia è già sotto procedura di controllo – il piano dovrà essere sottoposto alla Commissione, che non ha alcuna intenzione di approvarlo nella sua forma corrente.

La risposta di Bruxelles, destinata ad arrivare nelle prossime settimane, potrà chiarire alcuni elementi fondamentali per comprendere il reale posizionamento della Francia nelle gerarchie di potere dell’Unione Europea, e lo stato del suo rapporto con la Germania. Per cominciare, andrà verificato il vero grado di indipendenza della Commissione Juncker. Le recenti nomine dei commissari, tra le quali spicca quella del socialista francese Pierre Moscovici agli Affari economici, sembrano scongiurare la temuta promozione di figure esclusivamente legate all’ortodossia dell’austerità. Tuttavia, la nomina del “falco” finlandese Jyrki Katainen alla vice presidenza della Commissione e quella a capo di gabinetto dell’onnipresente cristianodemocratico tedesco Martin Selmayr potrebbero far pensare che Berlino controlli comunque il processo decisionale.

Si prefigura qui un classico conflitto tra la Commissione e uno stato membro, ma di portata finora inedita. Il suo esito mostrerà infatti anche fino a che punto Bruxelles vorrà spingersi al momento di sfidare la volontà di una capitale nazionale – in particolare, la seconda economia dell’eurozona. L’organo europeo potrebbe concedere altri due anni di sforamenti alla Francia, in cambio di nuove riforme economiche; altrimenti, c’è la possibilità di obbligare Parigi a tagli più profondi (magari fino a 30 miliardi). In caso di rifiuto, la Commissione potrebbe allora multare la Francia per quattro miliardi, cioè lo 0,2% del suo PIL. Basterà la presenza di Moscovici a garantire un trattamento onorevole a Parigi?

Lo scenario più probabile è il primo, benché la credibilità francese sia ai minimi sia tra i partner dell’eurozona, stanchi del rifiuto di adottare quei provvedimenti che altri hanno accettato senza discutere, sia nel mondo finanziario. Tra gli operatori della City di Londra il France bashing, il parlar male della Francia, è all’ordine del giorno; da parte sua, l’influente istituto di ricerche economiche IFO di Monaco di Baviera ha già commentato che permettere nuovo debito pubblico significa andare dritti verso la catastrofe.

Ma è un problema di credibilità quello che affligge la Francia anche al suo interno. Una punizione troppo dura da parte di Bruxelles brucerebbe Hollande e Valls, ma infiammerebbe anche l’opinione pubblica. Questa, stufa della sua classe politica così come delle istituzioni europee, ormai sensibile al discorso euroscettico e protezionista, non prenderebbe certo bene un commissariamento di fatto di matrice euro-tedesca della politica economica nazionale.

In attesa degli eventi, il tentativo di abbraccio tra il governo di Valls e il centro-destra moderato è evidente. L’uomo del dialogo, nell’UMP, è il sindaco di Bordeaux Alain Juppé, ora insidiato dal ritorno di Nicolas Sarkozy nella lotta per la leadership. Tra i punti di forza di Juppé c’è la sua figura sopra le parti, che non dispiace al centro e a sinistra, mentre Sarkozy è percepito come più polarizzante, e poco controllabile: si teme da lui un eventuale accordo con il Front National. Non a caso, un fuoco di sbarramento trasversale, dall’anziano ex Presidente Jacques Chirac al giornale progressista Le Monde, è già partito per strozzare sul nascere le ambizioni di Sarkozy. Ma Nicolas Sarkozy ha dalla sua un seguito ancora nutrito all’interno del partito, caduto in pezzi dopo il suo addio. Carisma, propensione al rischio e abilità politica lo rendono inoltre più attrezzato – rispetto al settantenne Juppé – per quella che si annuncia una campagna elettorale infuocata con possibile ballottaggio finale contro Marine Le Pen. C’è ancora tempo, fino al 2017; ma i contendenti sono già schierati sul campo di battaglia.