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Dentro il lungo tunnel greco e lontano dalla fine

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Più di cinque anni sono passati dal drammatico inizio della crisi greca: nell’ottobre del 2009 l’allora Primo Ministro Giorgos Papandreou annunciava ai suoi concittadini e al mondo intero la reale situazione delle finanze del proprio Paese. Da allora ben due piani di salvataggio sono stati varati da Commissione, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale – la cosiddetta Troika – dopo che la crisi di bilancio di Atene ha messo in pericolo l’euro. In cambio, si è richiesta alla Grecia l’applicazione di severe politiche di austerity. Cioè misure che, in sostanza, miravano a risanare il bilancio attraverso la riduzione della spesa pubblica.

L’austerity è stata applicata senza sconti. Con quali risultati? La congiuntura negativa che attanaglia la Grecia sembra essere ancora ben presente. I dati macroeconomici indicano recentemente un lento miglioramento (testimoniato dal ritorno sui mercati dei titoli pubblici e da una stima per il PIL del 2014 di +0,6%). Ma il PIL ha perso, dal 2010 a oggi, circa il 25%; è dunque in questo contesto che va valutato il lento recupero a cui stiamo assistendo. Intanto, il 26% della forza lavoro, e il 50% di quella sotto i 25 anni, è ancora disoccupata. In sostanza, la lieve ripresa stimata, dovuta soprattutto a una straordinaria crescita del settore turistico nel corso degli ultimi dodici mesi, è complessivamente ben poca cosa.

Inoltre, un grave deterioramento del quadro sociale e politico ha seguito quello economico. Tanto da spingere lo stesso Parlamento Europeo, nel marzo 2014, a sostenere a grande maggioranza due relazioni (una della Commissione Occupazione e Affari Sociali e una della Commissione Affari Economici e Monetari), nelle quali venivano sostanzialmente bocciate le politiche economiche scelte dalla Troika per i Paesi europei più indebitati. L’austerity ha contribuito a salvare l’euro nella fase più acuta della crisi internazionale, dicevano i documenti votati, ma ha provocato anche un vero e proprio “tsunami sociale”, creato povertà e insicurezza, minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee.

In Grecia i forti tagli alla spesa risultano decisivi nell’illustrare l’impoverimento del Paese e lo “tsunami sociale”. Alcuni dati sono eclatanti. Tra il 2009 e il 2011 il budget per gli ospedali ha subito tagli per oltre il 25%; ciò ha determinato un aumento della diffusione delle malattie infettive, così come un aumento della mortalità infantile, cresciuta di oltre il 40% tra il 2008 e il 2010. A denunciare la grave situazione dei minori in Grecia è stata addirittura l’UNICEF che, in un rapporto realizzato in collaborazione con l’Università di Atene, ha evidenziato come nel 2011 quasi 600mila bambini, cioè oltre il 30% del totale, erano a rischio emarginazione. Lo stesso rapporto sottolineava l’aumento della delinquenza giovanile, cresciuta del 54,4% tra il 2010 e il 2011, e la crescita del 58% dei reati commessi da bambini tra i 9 e 13 anni di età.

Negli stessi anni, il debito pubblico della Grecia, pari al 129% del PIL nel 2009, è cresciuto sino a toccare quota 175% nel 2013, rendendo incoerente qualsiasi piano di ulteriori tagli di bilancio. E rendendo evidente che le severe politiche ad oggi applicate, da sole, non sono in grado di risollevare l’economia greca. Le istituzioni europee non sono però finora apparse in grado di elaborare piani o soluzioni alternative, capaci di offrire garanzie più solide in campo sociale alla popolazione di uno dei suoi Stati membri, e in campo politico alla stabilità del suo sistema partitico.

Il deterioramento del quadro sociale ha diffuso infatti, nell’opinione pubblica greca, un profondo risentimento contro Bruxelles e contro la guida tedesca dell’Unione Europea; contemporaneamente si assiste alla crescita, nelle intenzioni di voto e nelle urne, delle forze politiche più avverse alle politiche economiche europee. Questa evoluzione non ha modificato però l’atteggiamento di un’UE ancora ingessata dai veti incrociati dei singoli membri, troppo spesso esclusivamente attenti ai propri interessi e pertanto incapaci di immaginare soluzioni valide per le esigenze dell’intera Unione.

È in tal senso paradigmatico l’atteggiamento che la Troika continua ad avere nei confronti di Atene. Da settimane, i suoi rappresentanti stanno tenendo una posizione molto dura nella trattativa sull’ultima parte del piano di risanamento economico, da attuare perché la Grecia possa uscire dal programma di concessione crediti. In particolare, il governo vorrebbe evitare di intervenire ancora sul sistema pensionistico, ma la Troika non accetta sconti. Si tratta di una condizione quasi impossibile da accettare da parte del Premier Samaras, che in queste settimane è impegnato in un delicatissimo passaggio politico quale l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Inizialmente prevista a febbraio, è stata anticipata a dicembre per volere dello stesso Samaras, che nel frattempo ha presentato ufficialmente il suo candidato, l’ex commissario europeo Stavros Dimas. L’anticipo punta a drammatizzare il voto – come confermato dal crollo della borsa di Atene – e serrare i ranghi tra i sostenitori del governo, dato che l’elezione diventa così una sorta di referendum tra la stabilità rappresentata dall’attuale governo e l’incertezza che deriverebbe dalla vittoria dell’opposizione di sinistra.

La Costituzione greca prevede che il Presidente possa essere eletto nelle due prime votazioni con una maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento, ovvero 200 voti, o con una maggioranza del 60%, ovvero 180 voti, alla terza votazione. Se a questo punto nessun candidato raggiunge il quorum, il Presidente uscente è obbligato a sciogliere il Parlamento e a indire nuove elezioni entro trenta giorni. Samaras può al momento contare su una maggioranza che oscilla tra i 153 e i 155 voti; il varo di un duro programma di tagli alle pensioni chiuderebbe le porte a possibili accordi con altre forze politiche per l’elezione del Presidente, e le aprirebbe invece alle elezioni anticipate.

Gli esiti di un’eventuale campagna elettorale sono assai incerti. I sondaggi indicano la federazione di sinistra Syriza, radicale e anti-austerity, in vantaggio su Nuova Democrazia, il partito di Samaras, di circa sei punti. È un risultato che si registra più o meno stabilmente da un anno. Tuttavia, l’opinione pubblica, secondo gli istituti demoscopici, continua a ritenere Samaras più adatto del leader di Syriza, il quarantenne Alexis Tsipras, a governare il Paese. Tale dato indica un’atavica diffidenza di parte della società greca nei confronti della cosiddetta sinistra radicale: si tratta di un elemento da non sottovalutare affatto.

Va però detto che Tsipras già da tempo si sta preparando alla possibile vittoria: gira l’Europa per incontrare altri capi della sinistra, ma anche per partecipare a incontri come il Forum Economico di Cernobbio o per fare visita a Papa Francesco. Sta insomma studiando da futuro capo del governo. Il leader di Syriza non manca di sottolineare che se vincerà, la Grecia resterà nell’euro. Però, pretenderà da un lato che si metta fine alle politiche della Troika, e dall’altro che si convochi una conferenza paneuropea sul condono di parte del debito dei Paesi a rischio: due proposte ora ritenute totalmente inaccettabili a Berlino, dalla BCE e dalla Commissione Europea. Per il resto, Tsipras segue le linee classiche della sinistra continentale, prime fra tutte la difesa dello stato sociale e del lavoro, ma all’interno di un programma più moderno e svecchiato – anche dal punto di vista della comunicazione.

Lo stato dei fatti rende pertanto incomprensibile l’intransigenza della Troika nei confronti dell’attuale governo, suo unico possibile interlocutore; certamente migliore di qualsiasi altro uscisse da un’infuocata campagna elettorale. L’intransigenza che indebolisce infatti Samaras e rende più probabili elezioni anticipate. Sia un quadro d’instabilità politica sia un’eventuale vittoria di Syriza sono esiti assai poco graditi non solo alla Troika, ma anche ai creditori internazionali della Grecia.

La posizione della Troika sembra dunque, una volta di più, dimostrare come le scelte operate dalla governance europea siano dettate non da strategie politiche condivise e proiettate sul lungo periodo, ma sempre più spesso da esigenze immediate e particolari. E sono proprio l’incapacità di reagire tempestivamente alle sfide del presente e l’impossibilità di pianificare strategie per il futuro i più gravi limiti con cui deve fare oggi i conti l’Unione Europea.