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Cosa pensano gli afgani del voto americano

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La prima preoccupazione degli afgani, in fatto di vicende elettorali, è stata in questi mesi la data delle consultazioni presidenziali nazionali e la domanda su chi saranno i candidati in corsa per sostituire Hamid Karzai, (al termine del suo secondo mandato e cui la Costituzione vieta di ricandidarsi). Sciolto il primo nodo (la data è stata annunciata per aprile 2014) resta il secondo, che difficilmente si scioglierà a breve e con facilità. Non di meno, anche grazie a giornali, radio e soprattutto tv – una novità nata nel dopo 2001 in un paese dove media vecchi e nuovi si sono guadagnati uno spazio e un’attenzione di tutto rispetto – le elezioni americane non sono passate inosservate. Gli Stati Uniti sono il primo partner dell’Afghanistan sotto diversi aspetti: tanto in termini militari (circa 70mila soldati attualmente presenti sul territorio) quanto economici (da poco ribaditi in un accordo che vincola i due paesi a una stretta collaborazione oltre il 2014, data fissata per il ritiro dei contingenti militari).

Dire quanto il dibattito tra i due candidati sia penetrato in profondità nella coscienza degli afgani è difficile da valutare, tenuto conto anche del fatto che esistono per molti una barriera linguistica e un gap tecnologico che impediscono un’analisi approfondita delle fonti su Internet. La percezione in generale degli Stati Uniti resta naturalmente viziata dal coinvolgimento di Washington in una guerra che dura da oltre dieci anni, con le inevitabili ombre che accompagnano un conflitto tanto lungo. Il dato comunque certo è che gli afgani pensano agli Stati Uniti come al maggior attore occidentale nella politica afgana, e dunque un cambio o una riconferma del loro presidente non possono passare inosservati.

Se si comincia dagli intellettuali, si può dar conto di un incontro pubblico avvenuto a fine ottobre proprio per discutere del futuro post-elettorale americano rispetto all’Afghanistan, di cui ha dato un ampio resoconto Pajhwok, l’agenzia di stampa indipendente nata diversi anni fa con il contributo dell’Occidente e che oggi sta sulle proprie gambe (pur tra molte difficoltà).

Abdul Ghafoor Liwal, a capo dell’Afghanistan Regional Studies Centre, sostiene ad esempio che i due candidati presidenziali non differiscono molto nella loro visione del mondo, Afghanistan incluso: motivo per cui, sostiene Liwal, non c’è da credere che la politica estera di Washington possa cambiare sia che vinca Barack Obama sia che a guadagnare la presidenza sia Mitt Romney. 

Wader Safai, della facoltà di scienze politiche dell’Università di Kabul, aggiunge che gli americani sono pronti ad appoggiare solo una politica estera che serva gli interessi nazionali del loro paese; in ogni caso gli afgani preferiscono i Democratici e per il semplice motivo che i Repubblicani hanno scelto la guerra quando erano al potere, mentre i Democratici hanno invece cercato di risolvere il problema dopo averlo ereditato.

Una visione condivisa da un funzionario afgano della cooperazione internazionale: gli afgani – dice – ricordano chi ha iniziato il conflitto in Iraq e pensano che i Repubblicani preferiscano in genere le “scelte muscolari”. I suoi concittadini, dice il funzionario, sono invece sicuri del desiderio di Obama di voler portare a casa i soldati, anche se probabilmente per l’uomo della strada i due partiti americani si equivalgono.

Il tema dell’interesse nazionale torna nel commento di un altro analista politico afgano, Mohammad Neman Dost: come che sia, dice, “un presidente americano è obbligato a far terminare o a continuare la guerra in Afghanistan a seconda degli interessi nazionali del suo paese”.

Quanto ai commenti sulla stampa locale (non molti per altro), l’orientamento è stato lo stesso e il giudizio generale è che il tema Afghanistan sia stato sollevato dai due candidati solo per dar fastidio al rivale.

Par di capire, insomma, che tendenzialmente si ritengano comunque univoche le scelte di fondo degli Stati Uniti in politica estera, seppur con qualche differenza di sfumatura. In buona sostanza, posto che evidentemente gli afgani credono a Obama (ha in effetti ritirato i 33mila soldati inviati con il surge del 2008, proprio come aveva promesso) e si sentono dunque più rassicurati da un presidente che ha mantenuto gli impegni, la sensazione generale è che non si aspettino grandi cambiamenti. E in un certo senso non vanno lontano da una realtà sotto gli occhi di tutti: il ritiro dall’Afghanistan – a parte qualche frase infelice di Paul Ryan che ha voluto rimarcare alcune differenze subito rintuzzate dal vice di Obama Joe Biden – è condiviso dai due candidati. E l’Afghanistan è stato forse l’unico vero punto realmente in comune tra Obama e Romney: su tutto il resto, dalla Russia alla Libia, passando per Iran e Israele, hanno fatto il possibile per prendere le distanze in politica estera l’uno dall’altro.

La sensazione generale è che comunque, nonostante le paure del dopo-2014 che rimangono tutte, gli afgani pensino che gli americani porteranno a casa le truppe e anche che sia davvero giunto il momento di farlo. Persino i più accesi sostenitori del ruolo statunitense in Afghanistan, sono convinti che la scelta sia propizia anche perché ben vincolata dall’accordo di partenariato strategico siglato da Washington e Kabul. Ma il punto più interessante è forse quello segnalato da Giuliano Battiston, un ricercatore italiano che passa buona parte dell’anno in Afghanistan dove ha condotto diverse ricerche, l’ultima delle quali sulla percezione nei confronti della presenza militare: Obama ha comunque intensificato gli attacchi con i droni in territorio afgano e pakistano, e dunque la domanda resta in che misura – non “se” – gli americani abbiano “i piedi nel piatto” nel futuro militare o nel processo di pace afgano. Che in passato abbiano sostenuto un “loro” candidato alla presidenza (divenuto poi il candidato della comunità internazionale) è evidente; cosa faranno adesso? Al momento si può solo rispondere che sa un’alternativa si sta lavorando da più parti, Washington compresa.