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Come Obama dovrà adattare l’agenda energetica

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La netta vittoria dei repubblicani nelle elezioni di midterm, sull’onda delle difficoltà economiche degli Stati Uniti, costringerà Obama a cambiare drasticamente la propria agenda energetica. La rivoluzione verde e lo slancio a favore delle rinnovabili saranno messe in secondo piano dalla necessità di dialogare con la maggioranza repubblicana per assicurare la sicurezza energetica del paese, rilanciando molto probabilmente il nucleare e le trivellazioni per i pozzi petroliferi.

Il nuovo corso al Congresso, non più guidato dai democratici, porterà ad un rilancio del petrolio. Le difficoltà economiche del paese, il preponderante ruolo del petrolio nel settore dei trasporti ed il graduale aumento del suo prezzo sui listini internazionali impongono infatti una revisione delle politiche federali in materia. Se l’amministrazione Obama ha finora considerato il petrolio come una risorsa obsoleta, la maggioranza repubblicana, finanziata apertamente dalle “major” del settore, non la pensa affatto così.

Il rilancio delle trivellazioni al largo delle coste, ed un possibile piano per la riduzione della tassazione sulla benzina, appaiono pertanto passi concreti che il nuovo Congresso valuterà e probabilmente adotterà da qui ai prossimi mesi. Peraltro, il rilancio delle trivellazioni potrebbe avere un concreto beneficio non solo per il consumatore americano, ma anche per quello europeo e asiatico. Una maggiore quantità di greggio immessa sui mercati internazionali potrà ridurne il prezzo mondiale, riducendo in questo modo le pressioni inflazionistiche su molte economie mondiali che potrebbero mettere a repentaglio la ripresa economica prevista nel 2011.

In particolare, se l’Agenzia Internazionale dell’Energia stimava un prezzo del petrolio, per la fine del primo semestre 2011 intorno ai 115-120, dollari barile (in uno scenario di ripresa economica internazionale), un’eventuale rilancio delle trivellazioni sulle coste americane potrebbe portarne il prezzo attorno ai 100 dollari per il medesimo periodo.

Il rilancio delle trivellazioni non riguarderà peraltro solo il petrolio, ma anche lo “shale gas” (gas presente nel sottosuolo all’interno di formazioni rocciose) nel Midwest e in Texas: ciò è destinato ad aumentare la produzione domestica di gas e creare nuovi posti di lavoro. Investire nelle estrazioni di questo tipo di gas permetterebbe agli Stati Uniti di sviluppare nuove tecnologie, puntando alla leadership mondiale nel settore.

Oltre a questo, la nuova agenda energetica che Obama dovrà sviluppare assieme ai leader repubblicani non potrà non prevedere il rilancio dell’opzione nucleare. Obama aveva già deciso all’inizio dell’anno di destinare più 50 miliardi di dollari per la realizzazione di nuovi reattori nucleari, attraverso l’utilizzo di 18,5 miliardi presenti nel budget del 2009 e tuttora non utilizzati, a cui si aggiungevano altri 36 miliardi prelevati dal budget dei prossimi anni. La nuova maggioranza al Congresso pretenderà certamente di destinare ancora maggiori risorse a tale opzione.

Del resto, il fronte pro-nucleare non comprende solo i conservatori, ma anche i moderati democratici (i cosiddetti “blue dogs”), che ritengono tale scelta imprescindibile per il futuro energetico del Paese se si vuole aumentarne la sicurezza energetica, limitare le importazioni di petrolio e mantenere gli Stati Uniti fra le nazioni leader nello sviluppo dell’energia nucleare di nuova generazione.

Questo gruppo nel panorama americano include anche molti fautori del carbone, come risorsa da utilizzare nel medio termine per ridurre la bolletta energetica del paese e garantire al contempo l’elevato numero di posti di lavoro che le miniere rappresentano in diversi Stati. Si può quindi ipotizzare che il Congresso discuta nei prossimi mesi anche dei piani per garantire sgravi fiscali o facilitazioni di altro genere per rilanciare le centrali a carbone – magari obbligandole a dotarsi dei nuovi sistemi per ridurre al massimo la produzione di fuliggine e gas serra durante il processo di produzione elettrica.

Tali scelte saranno assai controverse per l’amministrazione: pur potendo godere dell’appoggio più o meno esplicito dei “blue dogs”, sarebbero fortemente osteggiate dall’ala più radicale del partito democratico, nonché dai movimenti ambientalisti che si considererebbero traditi dal presidente. Obama rischierebbe così di inimicarsi parte della sua base nel tentativo di evitare l’ostruzionismo del Congresso su altre politiche.

In ogni caso, la nuova maggioranza repubblicana obbligherà Obama a ridurre drasticamente il suo slancio ambientalista alla luce della crisi economica e dei problemi di bilancio. Gli oltre 400 milioni di sussidi, destinati negli ultimi due anni alle tecnologie meno inquinanti, sono stati uno dei cavalli di battaglia dei repubblicani nei dibattiti sul futuro energetico del Paese. Gli scarsi risultati immediati, e la limitata efficienza di queste tecnologie rispetto a quelle convenzionali, hanno infatti provocato l’ositilità di larga parte dell’opinione pubblica e convogliato consensi verso i conservatori.

Su questo sfondo, l’amministrazione democratica sarà costretta a rivedere anche il suo approccio ai negoziati internazionali per un nuovo accordo sui cambiamenti climatici. Il dato di fatto è che il rifiuto delle economie emergenti – su tutte Cina e India – di adottare obblighi vincolanti di riduzione dei gas serra continuerà a bloccare l’approvazione di qualunque limite alle emissioni di CO2 negli Stati Uniti, vista la volontà di tutelare i gruppi manifatturieri e siderurgici preoccupati dalla possibile concorrenza sleale.

Anche la proposta, avanzata dal Segretario all’energia Steven Chu, di introdurre la “carbon tariff” (una tassa che imporrebbe una aliquota fissa su tutti i beni importati da paesi privi di obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni) non basterà probabilmente a indurre la nuova maggioranza repubblicana a dare il mandato a Obama per siglare un accordo internazionale che approvi un “cap” alle emissioni degli Stati Uniti. Tale situazione complicherà ulteriormente la strada, già accidentata, verso un accordo multilaterale sul clima per il post-2012 – e rischierà tra l’altro di isolare ancor più l’Europa nei negoziati.

Intanto, il verde vivace dell’agenda energetica di Obama rischia comunque di diventare un verde molto sbiadito a fine mandato.