La globalizzazione tende ad accrescere l’importanza geostrategica delle aree di libero scambio (Free Trade Areas, FTA): in quel che resta della competizione tra le grandi potenze, queste appaiono una versione riveduta e corretta delle zone egemoniche di un tempo. Al tempo stesso, la crescita del peso specifico dell’Asia cambia l’impatto che sugli equilibri mondiali hanno l’Atlantico e il Pacifico, intesi come macro-aree che furono a suo tempo disegnate dallo strapotere economico e militare americano.
In questo contesto era facile prevedere che l’anno in cui la Cina ha assunto la presidenza dell’APEC sarebbe stato contrassegnato dall’accelerazione di dinamiche complesse, che muovendo dal commercio intrecciano tutti gli aspetti delle relazioni internazionali. Il vertice Xi Jinping-Obama dell’11-12 novembre, con l’accordo sulle emissioni di gas serra e col memorandum d’intesa sulle tariffe per i prodotti tecnologici (viatico per un accordo generale sulla materia in sede WTO), ha mostrato che il dialogo tra i due super-grandi può essere fruttuoso. Nondimeno, mai come quest’anno il consueto cumulo autunnale di summit in terra asiatica ha evidenziato divergenze tra USA e Cina sui trattati commerciali che prefigurano uno scontro di ampia portata.
Questo scontro si allarga fino alla TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) che i Paesi asiatici sono portati a vedere come una sorta di “NATO economica”, cioè come il sistema per ricompattare un “blocco” occidentale capace di resistere ad ogni pressione e di proiettare verso l’esterno la propria visione del mondo. Il timore in Asia – e non solo in Cina – è che la TTIP, a differenza della WTO che si concentra sulla riduzione delle tariffe doganali, punti a fondare il nuovo “sistema commerciale globalizzato” attraverso nuove regole sulla proprietà intellettuale, sul lavoro, sulla competitività, sugli interventi statali, sulla soluzione delle dispute. Appare quindi come una mossa “escludente”; sebbene i calcoli più ottimistici prefigurino vantaggi a pioggia in ogni angolo del mondo, si considerano con preoccupazione le previsioni opposte, con crescita di occupazione e di produzione all’interno della FTA contrapposta a una trade diversion che penalizzerebbe i prodotti a basso costo provenienti dai Paesi asiatici. Questi inoltre sarebbero obbligati ad adeguarsi agli standard in vigore all’interno dell’area TTIP circa proprietà intellettuale, sicurezza alimentare, ricadute sull’ambiente, ecc. Anche le regole relative agli investimenti potrebbero costituire ostacoli non agevolmente superabili. Facile prevedere, si pensa in Asia, che alla TTIP prima o poi si unirebbero anche Paesi come Canada, Messico e Australia, accrescendo ulteriormente il suo carattere di blocco strategico occidentale. Per non limitarsi dunque a subire gli eventi (magari approntando fin d’ora le contromisure), la richiesta fatta ad americani ed europei, è di essere adeguatamente informati, pur nella consapevolezza che i negoziati commerciali multilaterali hanno come marchio di fabbrica la segretezza. “L’approccio cinese alla TTIP – si legge ad esempio sul Global Times – dipenderà in modo determinante dal grado di trasparenza della trattativa”.
Non è poi secondario che la TTIP appaia come il contraltare della TPP (Trans Pacific Partnership) e nel contempo come una rassicurazione fatta da Washington all’Unione Europea circa l’inossidabilità di un rapporto che la politica del Pivot to Asia sembra mettere in secondo piano. Le due FTA fortemente volute dagli Stati Uniti, rinsaldando rodate alleanze, stringerebbero i Paesi asiatici esclusi dal TPP in una morsa. Alcuni hanno le carte giuste per togliersi d’impaccio: dalla Corea del Sud (già legata all’Unione Europea da un solido partenariato e già ora tentata di aderire al TPP) al blocco ASEAN (che nel 2015 dovrebbe dar vita a una autentica Comunità economica, intrecciata attraverso alcuni dei suoi membri col TPP) all’India (corteggiatissima da Stati Uniti e Giappone). Ma per altri, con la Cina in testa, si tratterebbe di un accerchiamento pericoloso, che richiede risposte costruttive.
Sono molti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di un’intesa sulla TTIP; ma anche la TPP non è esente da problemi, visto che le trattative si trascinano da quattro anni senza trovare uno sbocco. Non sono servite in passato e non sembra possano servire ora le continue pressioni di Obama, che anche nella recente visita a Pechino ha quasi stancamente ribadito la “rilevanza storica” di un accordo che non c’è. E invano, a coronamento dell’ennesima fumata nera seguita alla riunione ministeriale di fine ottobre a Sydney, si è cercato di fare quadrare il cerchio preannunciando per l’anno prossimo un “accordo generale”. Come ha confessato il Presidente di turno, l’australiano Andrew Robb, “Gli elementi di base di un’intesa su temi sensibili che richiedono decisioni politiche, non tecniche” non sono stati individuati.
In sostanza, i cinesi e chi osteggia le mega-aree di libero scambio targate USA hanno il tempo di organizzare contromisure, e lo stanno usando sfruttando anche l’onda lunga di quella diffidenza verso la globalizzazione gestita da Washington che rimonta alla crisi asiatica del 1997. Malgrado l’appannamento del boom cinese e la forte ripresa americana, la Cina ha oggi grande forza di attrazione per i Paesi asiatici. Di tutti è oggi il principale partner commerciale, e le ricette di liberalizzazione degli scambi che essa propone sono spesso più facilmente digeribili di quelle americane. Le rende ancora più convincenti una politica degli aiuti basata sulla convinzione che sviluppo significa infrastrutture e una pressoché illimitata capacità di investimento all’estero (1.250 miliardi di dollari previsti nei prossimi dieci anni). L’approccio è condiviso dalle altre due locomotive asiatiche, Corea del Sud e Giappone; e questa affinità, se pure produce concorrenza, conferisce al “metodo Asia” una omogeneità che diviene una alternativa all’interventismo americano (condizionato a buon governo e stabilità), rendendo marginale la vecchia divisione tra filo- e anti-occidentali. Contribuisce inoltre a porre l’Asia al centro della globalizzazione, riducendo l’appeal del TPP, che ha in effetti il suo fulcro nel continente americano, e corrobora la politica del Look West, ovvero del guardare all’India, all’Asia Centrale, ma anche, soprattutto all’Europa. E se al momento con l’UE ci si limita alla faticosa elaborazione di accordi bilaterali, si potrebbe presto andare ben oltre, sfruttando come ponte la Russia (una volta aggirato l’ostacolo ucraino), e – magari più tardi – la naturale inclinazione della Germania a proiettarsi verso Est. In prospettiva dalla crescita dell’Asia potrebbe derivare uno spazio commerciale euroasiatico gestito in modo multilaterale e autonomamente rispetto agli USA (e alla TTIP).
La Cina non può non guidare la corsa in questo senso, forte del progetto di cintura economica della Via della seta, nella doppia versione terrestre e marittima, e delle iniziative multilaterali che ad esso si affiancano. E l’anno di presidenza cinese dell’APEC sembra costituire un utile puntello di questa linea strategica, consentendo a Pechino di far compiere passi avanti alla sua visione di liberalizzazione e integrazione commerciale. Ufficialmente agli USA il Presidente Xi Jinping ha offerto un ramo di ulivo. Come si legge in un editoriale del Global Times, nulla di più sbagliato che voler interpretare il vertice APEC in chiave di lotta per la supremazia tra Cina e USA; nessuna volontà cinese di dominare il settore Asia-Pacifico o di sovvertire l’ordine mondiale. Ma in questo ordine devono avere diritto di cittadinanza anche gli interessi della Cina. Alla TPP allora si contrappone l’Area di Libero Scambio dell’Asia-Pacifico (FTAAP) e alla Banca Asiatica di Sviluppo ADB (in larga misura sotto controllo americano e giapponese) si contrappone la Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti AIIB.
Il Ministro del Commercio cinese Gao Hucheng ha definito l’approvazione di una roadmap per realizzare la FTAAP “una pietra miliare nella storia dell’APEC”. Gli USA hanno subito eretto barricate. Il negoziatore per il TPP Michael Froman ha definito la FTAAP una “aspirazione a lungo termine”. E ha ottenuto che si procedesse a uno “studio strategico” della FTAAP per i prossimi due anni, più generico di quello di “fattibilità” ambìto dai cinesi. Dunque, a livello APEC si adotta un approccio graduale e nessuna apertura di negoziati per ora. Ma la TPP comincia ad essere sotto assedio, dato che nuove formule si aggiungono alla RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) e all’ASEAN+3, le FTA multipolari che Pechino già pubblicizzava per affermare la sua leadership regionale. Inoltre la strategia cinese appare fluida e pronta a rettifiche prendendo in considerazione l’idea, se le strade alternative si mostrassero impraticabili, perfino di aderire alla TPP. E mentre si dà ormai quasi per certa la creazione di una FTA tra Corea del Sud e Cina entro il 2014 con l’eliminazione del 90% dei diritti di dogana, sembra più facile una adesione all’iniziativa anche di Tokyo. Per ora non è in alternativa al TPP, ma non si sa mai.