international analysis and commentary

Come cambia la strategia Usa in Afghanistan

330

Quanti progressi ha fatto la nuova strategia per l’Afghanistan lanciata da Obama in marzo? Molti, soprattutto sul terreno e dal punto di vista militare. Meno chiaro il quadro politico diplomatico, che è complicato dalle vicende pachistane e iraniane; su questo piano un’ ulteriore svolta si potrà avere  dopo le presidenziali afgane del 20 agosto.

Per capire meglio quanto sta accadendo, ripercorriamo gli sviluppi degli ultimi mesi, guardando sia all’approccio politico che all’azione sul terreno.

La nuova linea, a Washington e sul terreno
A marzo Obama aveva annunciato un ripensamento strategico sia sull’Afghanistan che sul Pakistan, facendo largo uso dell’acronimo AfPak – che, curiosamente, oggi sembra già caduto in disgrazia. Soprattutto, il Presidente aveva ribadito che la vittoria non sarebbe mai stata la sommatoria  “di bombe e bossoli”. La promessa era dunque di investire nella cooperazione civile e nell’esercito nazionale afgano (Ana), dando fiato a  un “processo di riconciliazione” che cooptasse elementi moderati e non ideologizzati della guerriglia. Parallelamente, si sarebbe iniettato il nuovo ingrediente militare: 17.000 marines, ma anche 4.000 istruttori per la formazione di  poliziotti e soldati afgani. Per il Pakistan Obama prefigurava 1,5 miliardi di dollari all’anno per i prossimi cinque, con l’obiettivo di rimettere in piedi soprattutto i servizi sociali: scuole, strade, ospedali.

Non c’è dubbio che la dimensione militare – un “surge” di irachena memoria – era l’aspetto più controverso.

Stanley McChrystal è il generale americano che l’Amministrazione Obama ha scelto per comandare le forze statunitensi in Afghanistan (Usfor-A). E’  anche a capo di ISAF (61.130 soldati da 42 nazioni)  e dunque si può ben dire che è attualmente il più potente comandante militare nel paese: a lui infatti fa capo sia la missione Nato sia  Enduring Freedom (OEF, attualmente con 17.100 soldati). E’ stato scelto per l’esperienza accumulata nei teatri operativi (a lui si dovrebbe in Iraq la morte di al-Zarqawi) e allo stato maggiore. Ha qualche macchia sul CV, per essere stato protagonista di alcuni episodi controversi durante la permanenza irachena, e ciò aveva lasciato perplessi proprio per la simbologia della scelta: pugno di ferro più che guanto di velluto.

Al contrario, l’arrivo di Mc Christal, che ha preso il comando poco dopo il più grave episodio imputabile a raid aerei (l’incidente di Bala Bolok in maggio), ha segnalato un’inversione di tendenza proprio attraverso la riduzione dei raid aerei. Il generale ha ribadito più volte che il problema della sicurezza in Afghanistan deve riguardare soprattutto la protezione dei civili. A fine luglio si è spinto più in là: è necessario proteggere i civili anche se ciò dovesse costare la tranquillità dei talebani nelle aree più remote del paese.

In un certo senso, queste dichiarazioni sono la cartina la tornasole di come, sul terreno, sta cambiando la strategia degli Stati Uniti. Anche se un vero bilancio arriverà soltanto con il rapporto che lo stesso McChristal sta completando per metà agosto (come “60-day assessment of the war”).

Certamente, la gestione diplomatica rimane molto difficile, soprattutto perché il fronte pachistano è contrassegnato dall’avanzata talebana nella valle di Swat, e dalle polemiche sui bombardamenti dei “droni” in Waziristan. Più ampiamente, l’esercito e il governo di Islamabd hanno espresso subito malumore per l’ingerenza di Richard Holbrooke, l’inviato speciale di Obama nella regione, sebbene per la verità Holbrooke si sia mosso finora con una certa cautela.

Inoltre, il nuovo corso di Obama è stato decisamente complicato dagli  avvenimenti iraniani, che hanno quantomeno dilazionato ogni effetto concreto delle aperture americane sul quadro regionale.

Dal surge alla protezione dei civili
Intanto i contorni della nuova strategia stanno emergendo, anche al di là della componente militare o genericamente diplomatica. La netta impressione è che Obama avesse in mente, fin dall’inizio, una sorta di “civilian surge”: un esercito di ingegneri, agronomi, e specialisti in vari altri settori civili. A prescindere dal termine, che potrebbe anche finire per essere abbandonato, il governo afgano ha preparato un “Civilian surge plan” che prevede 700 nuovi consulenti stranieri per 22 ministeri.

E’ una politica che non ha ancora preso del tutto corpo, ma di cui si registra almeno un segnale importante, con l’accantonamento del “surge” all’irachena previsto inizialmente dal generale David Petraeus: questo era stato preannunciato per mesi come un imminente piano di riconquista territoriale attraverso milizie locali, ma non sembra essere in corso di attuazione. Le priorità sono diverse.

Del resto, anche le parole hanno una loro forza: “surge” evoca guerra, e AfPak irrita i pachistani (timorosi dell’approccio regionale e soprattutto di un termine che sembra unificare i due paesi). Meglio passare ad altre locuzioni, ad altre parole: come “protezione dei civili”, un fattore sensibilissimo su cui si comincia a registrare il primo giro di boa.

Gli americani e gli altri
Anche se il comando delle due missioni militari (ISAF/Nato e OEF, da sempre una delle maggiori contraddizioni della guerra) è adesso in un certo senso unificato dalla presenza di McChristal, la sensazione generale è che gli americani procedano da soli. Non è certo una novità, ma è cosa degna di nota.

Ciò non si deve solo alla superiorità numerica  (28.850 uomini in ISAF, 17.100 di OEF) o di armamento, ma a una sorta di apparente deferenza, e mancanza di iniziativa politica, da parte degli europei – sia i singoli paesi che la UE in quanto tale.

C’è l’eccezione dei britannici (con 8.300 uomini), e tra i paesi extraeuropei dei canadesi (con forze di prima linea ma un delicato dibattito interno sul futuro della missione). Ma nel complesso, è innegabile che tutti gli altri partecipanti ad ISAF non sembrano aver dato sino ad ora un contributo sostanziale, lasciando agli Stati Uniti l’iniziativa politica e militare, limitandosi semmai a seguirla a breve distanza.

Washington si delinea così come l’unico vero protagonista, ma dall’arrivo di Obama anche l’unico attore ad aver tentato realmente di cambiare strategia – e questo è davvero paradossale, viste le posizioni a dir poco preoccupate di molti europei. Non a caso, Washington ha rinunciato a insistere seriamente nella richiesta agli alleati di fornire qualche soldato in più. Questa situazione è stata evidente sia alla conferenza di Trieste di fine giugno su AfPak, sia allo stesso G8 dell’Aquila, dove l’Afghanistan non è certo stato prioritario sull’agenda.

Rimane il piano militare in corso, ovviamente a guida americana: rafforzamento a tempo record dell’esercito afgano (dagli attuali 89.500 uomini a 135.000 entro il 2011, sostenuti da 80.000 poliziotti), e operazioni militari allo scopo di “prendere e tenere” i teatri sottraendoli definitivamente ai talebani laddove è possibile. Il che significa lasciare sguarnite le località più remote senza disperdere gli uomini, puntando invece a mantenere il controllo dove maggiore è la densità abitativa ed è quindi più importante lavorare sul consenso.  Infine, prestare maggior attenzione sia al problema delle vittime civili imputabili ai bombardamenti (degli oltre 2.000 civili uccisi nel 2008, il 39% era dovuto alle forze afgane o occidentali, e 552 erano i caduti sotto i bombardamenti) sia a un miglior utilizzo dell’intelligence e degli aerei da ricognizione per individuare il nemico. Dopo il via libera a 21 mila soldati (di cui 4.000 non combattenti), Obama non ha preso ulteriori impegni. Una novità riguarda la questione dell’oppio: non più fumigazioni ed eradicazioni forzate, ma controllo del territorio (come con l’operazione Khanjar nell’Helmand) e sovvenzioni ai contadini per cambiare colture.

I segnali di reale cambiamento insomma ci sono, e sono stati resi più visibili a ridosso delle elezioni presidenziali del 20 agosto. Dopo quell’appuntamento si potrà fare il punto e stabilire che corso seguire.