international analysis and commentary

2009: morte del khomeinismo a 20 anni dalla morte di Khomeini?

311

Gli anniversari, spesso, lasciano il tempo che trovano, e non si vede perché 10 o 20 anni abbiano più senso che non 9 o 19. Ma questa volta il ventennale della morte dell’imam Khomeini può suggerire riflessioni politicamente significative. Perché la crisi interna dell’Iran, dopo le elezioni della scorso giugno, potrebbe in effetti segnalare la fine del disegno khomeinista – che non mirava a una teocrazia pura ma prevedeva anche un livello democratico, subordinato a quello teocratico.

È bene sottolineare ancora una volta l’originalità, se non addirittura l’anomalia, della rivoluzione del 1979. Una rivoluzione tardiva, quando ormai era evidente che la spinta dell’ideologia rivoluzionaria più potente nel XX secolo, il marxismo, aveva “perso la sua capacità propulsiva”, per dirla con Enrico Berlinguer.

Eppure quella rivoluzione riprendeva molti dei motivi alla base di altri eventi rivoluzionari che l’avevano preceduta: l’anti-imperialismo, la richiesta di giustizia sociale, l’anticapitalismo, con in più una spinta antimonarchica.

La rivoluzione iraniana come “rivoluzione di sinistra”

Oggi tendiamo a dimenticare, vista la natura del regime che si instaurò dopo la vittoria della rivoluzione, che in larga parte si trattò, sia sotto il profilo dell’ideologia che delle forze politiche in campo, di una tardiva “rivoluzione di sinistra”, con un ruolo importante svolto dal Partito comunista, il Tudeh, e da movimenti più piccoli ma estremamente attivi e organizzati, sia nel paese che all’estero, di ultrasinistra, maoista e non.

Questi partiti e gruppi, tuttavia, erano ben consapevoli di essere sostanzialmente movimenti di elite, con insufficiente base popolare, mentre in Iran, tradizionalmente, era il clero sciita ad avere una presenza capillare, direi egemonica, negli strati più umili della popolazione, soprattutto nelle campagne. Di qui quella che sembrò allora una geniale, machiavellica, strategia politica: imbarcare il clero, i mullah, con l’intenzione di sbarcarlo, una volta la rivoluzione avesse trionfato, sulla prima isola deserta…

Questo disegno era reso concepibile dalla presenza, nell’islam iraniano, di una tradizione di “dissidenza” basata sulla stessa natura non solo intrinsecamente politica, ma storicamente e ideologicamente minoritaria e contestataria dello sciismo – una tradizione che nel corso della storia iraniana si è più volte tradotta in episodi di contrapposizione e ribellione nei confronti del potere. C’è di più.

Come descrive magistralmente un libro veramente essenziale per capire l’Iran contemporaneo, The Mantle of the Prophet, di Roy Mottahedeh, a partire addirittura dagli anni Cinquanta si era sviluppata all’interno del clero sciita iraniano una sensibilità politica di impronta chiaramente rivoluzionaria, con una forte componente anti-imperialista, “fanoniana”. A livello teorico, Shariati e altri pensatori avevano cominciato, molto prima del 1979, a elaborare “fusioni” ideologiche fra islam e radicalismo più o meno marxista.

Tutto questo, tuttavia, non sarebbe mai arrivato a produrre effetti politici così profondi senza la figura di Khomeini.

Khomeini: da teologo reazionario a politico rivoluzionario
Personalità di grande carisma e spessore teologico, Khomeini si era scontrato fin dai primi anni 60 con il potere dello shah, ma non certo su posizioni “rivoluzionarie”, bensì schierandosi su una linea coerentemente e integralmente reazionaria (basti ricordare che la sua opposizione al voto concesso alle donne fu il più importante “casus belli” del suo scontro con i regime Pahlavi).

Teologo reazionario, Khomeini si rivelò, in esilio, come abilissimo politico rivoluzionario. Il suo vantaggio rispetto ai rivoluzionari di sinistra era quello di avere ben chiara non solo la provvisorietà del tutto strumentale della sua alleanza con loro, ma anche la direzione in cui voleva che il paese si muovesse dopo la vittoria della rivoluzione. Ciò in netto contrasto con un fronte progressista ideologicamente e programmaticamente diviso come solo i marxisti sono stati storicamente capaci di dimostrarsi, e illuso sulla possibilità di prevalere sui mullah, sostanzialmente sottovalutati, anzi disprezzati con tutta la presunzione tipica degli intellettuali rivoluzionari. Ma qual’era il disegno di Khomeini?

Qui emergono tutta la sua genialità e la sua originalità politica, anzi la capacità di innovare al limite dell’eresia religiosa.

Lo sciismo è una religione fortemente messianica, centrato com’è sull’attesa della riapparizione dell’imam scomparso, il Mahdi. In assenza e in attesa di questo ritorno, il potere è, per così dire, inquinato e può essere solo limitato e corretto, ma appena marginalmente, da parte di chi – il clero sciita – è chiamato a diffondere il messaggio religioso. In altri termini, lo sciismo ortodosso può essere ribelle contro gli eccessi e soprattutto le deviazioni del potere dalla ortodossia islamica, ma in nessun modo può gestire il potere e nemmeno riconoscerlo come “islamico”.

In concreto, oggi lo sciismo ortodosso è rappresentato in Iraq dall’ayatollah Sistani (incidentalmente, iraniano di origine): una figura influente politicamente, ma che non avrebbe potuto concepire una gestione diretta del potere in Iraq.

Nel suo esilio di Neauphle-le-Chateau, Khomeini – con l’aiuto di giovani intellettuali islamo-progressisti – concepì invece una costituzione assolutamente innovativa, rompendo con i canoni sia dell’ortodossia sciita che di quella rivoluzionaria.

Il doppio potere nella Repubblica islamica
Nacque così la Repubblica Islamica, una struttura istituzionale complessa, in cui un “livello democratico” – strutturato secondo i canoni classici della divisione dei poteri (un presidente, un parlamento, un ordinamento giudiziario) – viene subordinato al “livello teocratico” , in particolare una sorta di Politburo legibus solutus, il Consiglio dei Guardiani, e soprattutto la figura del Rahbar, il Leader Supremo, la Guida. La teoria del velayat-e-faquih, la guida del massimo giuresconsulto islamico, sovrappone in questo modo la religione, e il suo massimo esponente, a tutte le istituzioni.

Ma è proprio in questa figura, centrale nel disegno di Khomeini, che possiamo rilevare i limiti, e la prima o poi inevitabile caduta, del sistema politico instaurato con la rivoluzione del 1979. Il ruolo, senza dubbio, era tagliato su Khomeini: sul suo spessore teologico, sul suo carisma, sul suo acume politico, e anche sulla sua spietata determinazione.

Il passaggio, alla sua morte, di questo ruolo all’ayatollah Khamenei – teologo universalmente considerato “di secondo livello”, poco carismatico, e politico più abile che inflessibile – non poteva restare senza conseguenze, nel senso di indebolire la componente religiosa nel complesso sistema istituzionale iraniano.

E qui veniamo ai nostri giorni. Uno dei passi più significativi del famoso sermone pronunciato dall’ayatollah Rafsanjani il 17 luglio scorso è stata l’affermazione secondo cui solo preservando entrambi i termini della “Repubblica islamica” sarà possibile assicurarne la sopravvivenza. Il richiamo all’unità del regime – senza dubbio spaventato in tutte le sue componenti, anche quelle centriste e riformiste, dalle dimensioni della protesta popolare contro i brogli elettorali – non è generico, ma si riferisce a quello che è ormai il vero nodo della questione.

Se è vero infatti che nello schieramento progressista vi è sempre stato chi spera in un superamento della componente “islamica” e nell’emergere graduale di una semplice repubblica di impronta autenticamente democratica, nella parte opposta dello schieramento politico si sono ultimamente rafforzate, soprattutto dopo la prima elezione di Ahmadinejad alla presidenza nel 2005, le spinte verso l’eliminazione della odiata componente repubblicana (vista come pericolosa contraddizione), per creare invece uno “Stato islamico” (Hokumyat) – formula che per i suoi oppositori evoca la sinistra immagine dell’emirato talebano.

In entrambi i casi sarebbe la fine del disegno khomeinista, che non fu mai quello di una pura teocrazia bensì l’originale subordinazione alla teocrazia dei meccanismi – più moderni, più inclusivi – di una democrazia repubblicana.

Non a caso, quindi, Rafsanjani, nel momento in cui ha fatto il suo appello a ricreare l’unità fra le varie correnti del regime, ormai seriamente compromessa, ha messo anche sul tavolo la questione di fondo: se vogliamo restare fedeli all’insegnamento dell’imam Khomeini – ha in effetti sostenuto Rafsanjani – se non vogliamo compromettere la sua creazione, dobbiamo rimanere fedeli sia alla componente islamica che a quella repubblicana. Questo invito è più che comprensibile, e ha anche una sua logica.

Repubblica o Stato militare?
Non dobbiamo dimenticare che – come chiarito in una sua lunga lettera aperta dopo le elezioni – lo stesso Moussavi si presenta in veste non certo di riformatore radicale (con tutto ciò che questo comporta in termini di possibile superamento del regime), bensì di “khomeinista autentico”. Più autentico di quell’Ahmadinejad che effettivamente ha suscitato in larga parte del clero il sospetto di essere l’affossatore della formula khomeinista. Di essere lo strumento, in sostanza, di una strisciante ma chiarissima strategia di sostituzione della teocrazia con la “stratocrazia” dei pasdaran, ormai insediati in tutti i centri vitali del potere sia politico che economico.

La storia dell’Iran ci ha sempre riservato grandissime sorprese, eppure sembra possibile dubitare che, una volta spezzato, sia possibile recuperare il difficile equilibrio che caratterizzava la creazione politica dell’imam Khomeini. Allo stesso tempo, tuttavia, sembra difficile immaginare il consolidamento di un puro “Stato islamico”, fra l’altro lontano dalle tradizioni del paese oltre che dal suo livello di sviluppo sia economico che culturale.

Forse la battaglia attuale, al di là dei richiami obbligati ma sempre meno credibili al “ritorno alle origini” del khomeinismo, avrà come posta in gioco la questione di “quale repubblica” costruire: una repubblica democratica che permetta fra l’altro all’Iran di assumere nella comunità internazionale il ruolo che gli compete, o un regime autoritario-militarista che conserverebbe ovviamente i riferimenti religiosi (Ahmadinejad è autenticamente iper-religioso ed è davvero in attesa del Mahdi) ma in cui i mullah sarebbero trasformati in poco più di cappellani militari.

È certo uno scontro di potere all’interno del regime, ma con un nuovo e inatteso protagonista: un popolo iraniano che, seppure diviso socialmente e politicamente, sembra sempre più consapevole del suo diritto a vivere in un “paese normale” al di là dei disegni khomeinisti, dei sogni rivoluzionari di trenta anni fa, e soprattutto al di là delle sofferenze e delle occasioni mancate di un paese che si sente, ed è, un grande paese.

Further reading
Non interference is back by Marta Dassù, Corriere della Sera