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Cina-Usa: l’ipoteca dell’anno elettorale

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Per le relazioni tra Washington e Pechino il 2012, anno elettorale e di sommovimenti al vertice, non può essere che un periodo di transizione fatto di poche concessioni e molti irrigidimenti reciproci. La visita americana del vice presidente cinese Xi Jinping ne ha costituito una prova, sebbene i colloqui non possano dirsi un fallimento: almeno un risultato sembra essere stato raggiunto, in termini di relationship building soprattutto con il vicepresidente Joe Biden. C’è stata poi la conferma – scontata ma comunque opportuna –  della consapevolezza da parte di entrambi i Paesi che le due maggiori economie mondiali hanno bisogno l’una dell’altra.

Quello tra Xi e Biden è stato il primo incontro al massimo livello tra Cina e Usa da quando il presidente Barack Obama ha impostato la sua politica estera sull’assunto di uno spostamento dell’asse verso l’Asia – un “pivot”, per usare il termine scelto dalla Casa Bianca. Tale aggiustamento poggia su un piedistallo militare capace di resistere anche agli inevitabili tagli nel bilancio della difesa.

È pertanto rilevante che il (quasi certo) prossimo presidente della Repubblica Popolare sia apparso pronto a mettere la sordina sulle contrapposte e simmetriche accuse di build up militare. Da non sottovalutare anche il fatto che abbia mostrato di capire il punto di vista americano su temi scottanti come la crisi coreana e quella iraniana. Capire non significa condividere – è quindi impensabile che la Cina rinunci al petrolio iraniano o a gestire il “dopo Kim Jong-il” – ma fatti salvi gli “interessi vitali cinesi”, alcuni spazi per il compromesso possono essere trovati. Su questi temi la Cina del dopo Hu Jintao – si può leggere in filigrana – non cercherà lo scontro.

Dove si è invece registrata una chiusura totale e senza possibilità di equivoci è sui core interest della Cina,  connessi con  la sovranità territoriale:  Tibet e Taiwan. Non solo nessuna concessione al Dalai Lama  e nessuna idea di ammorbidire la repressione in Tibet, ma una richiesta formulata in modo esplicito da Xi:  “Ci auguriamo che gli Stati Uniti riconoscano quanto prima il Tibet come parte del territorio cinese e si oppongano alla sua indipendenza mostrando cautela in tutte le questioni relative al popolo tibetano”. Lo stesso vale per Taiwan: gli Usa – ha detto Xi con riferimento al pacchetto da 6,4 miliardi di dollari autorizzato da Bush e approvato da Obama nel 2010 – non solo dovrebbero astenersi dal vendere armamenti sofisticati, ma “devono opporsi alla indipendenza di Taiwan”.

Una “zona grigia” su cui Xi non aveva interesse a fare chiarezza è rappresentata dalla sovranità sulle aree per le quali è in corso un contenzioso con Paesi vicini, dal Giappone alle Filippine al Vietnam. In questi mesi i rapporti con Tokyo restano ambivalenti, fatti ora di intese ora di sgarbi. Con gli altri paesi della regione non si vedono concreti segni di schiarita. E forse proprio le rivendicazioni territoriali e lo sfruttamento delle risorse del Mar Cinese meridionale e del Mar Cinese orientale sono il maggiore punto interrogativo  per fare previsioni su come evolverà la politica estera cinese dopo gli importanti cambiamenti di fine d’anno. A Xi viene di solito attribuita una visione nel complesso basata sulla continuità rispetto alla gestione degli ultimi anni. Ma è difficile dire quanto egli sia sensibile alle pressioni dei militari, e se tra di essi preferisca appoggiarsi a chi ritiene che la via migliore sia l’uso della forza o piuttosto a chi paventi l’inizio di una corsa agli armamenti che potrebbe mettere in forse lo stesso miracolo economico cinese.

È certo comunque che geostrategia ed alta finanza non possono non incrociarsi – lo si è visto anche durante la visita di Xi – secondo la logica imposta dall’anno elettorale. Si è avvertita cioè una assertività maggiore nel difendere le rispettive posizioni. Gli americani hanno fatto la voce grossa su temi come la lentezza con cui la Cina procede a rivalutare lo yuan, a imporre il rispetto della proprietà intellettuale, a riequilibrare la bilancia commerciale. Da parte sua, Biden ha denunciato che qualcuno “bara al gioco”, sintetizzando la posizione che Obama ha così espresso: “Vogliamo lavorare insieme alla Cina perché tutti operino con le stesse regole quando entrano nel sistema economico mondiale”.

Intanto, vere e proprie invettive sono arrivate dal più autorevole candidato alla nomination repubblicana, Mitt Romney, che ha definito Pechino una prospera tirannia. Quello che ci attende non dovrà mai essere il secolo cinese, ha detto Romney, che ha rinfacciato a Obama di avere “supplicato” i cinesi perché continuino a comprare i buoni del tesoro americani, ha parlato di una “resa senza condizioni” sul piano commerciale e ha definito le autorità monetarie di Pechino “currency manipulator”. Ma l’eventualità di una guerra commerciale, quando la Cina è il pilastro che sostiene i deficit di bilancio sia degli Stati Uniti sia di molti Paesi europei (durante la visita di Xi si è svolto a Pechino il vertice Ue-Cina, con gli europei nella parte dei questuanti), è una minaccia che la destra americana agita solo a fini interni, e che non sembra preoccupare i cinesi.

Piuttosto, vista l’ottima accoglienza ricevuta da Xi nello Iowa con la firma di megacontratti (acquisto di soia  per sei miliardi di dollari), appare ovvio che la Cina continuerà ad essere – come nel 2011 – il miglior mercato per i prodotti agricoli americani. E se gli umori della farm belt contano per la corsa alla Casa Bianca, non si possono definire solo retoriche le parole pronunciate da Xi: “La nostra partnership è un fiume in piena che nessuno può arginare”. Un fiume in cui, attraverso intese delle ultime ore come l’apertura cinese alle assicurazioni ed ai prodotti cinematografici americani, Xi ha fatto confluire altra acqua,  secondo una studiata strategia: dimostrare quanto l’economia cinese sia tuttora dinamica ma anche orientata a incoraggiare la domanda interna.

Xi non ha nascosto la gravità delle divergenze economiche, e ha anzi sottolineato che è inutile parlare di rivalutazione dello yuan o altre questioni fintanto che Washington tiene sotto stretto controllo le esportazioni verso la Cina di prodotti high tech e non concede più spazio agli investimenti diretti cinesi su suolo americano. Ha però messo in rilievo che si tratta di costruire un nuovo tipo di partnership cooperativa tra il Paese in via sviluppo più grande del mondo e il più grande Paese sviluppato. “E’ una sfida da pionieri che non ha precedenti”, ha detto Xi,  che dunque non può ispirarsi a esempi a cui fare riferimento.

Ciò non significa che la strategia complessiva di Pechino ruoti esclusivamente intorno al rapporto con gli Usa: non è quindi  il G2, per i cinesi, il modo più idoneo di partecipare attivamente alla global governance in cui proprio Obama li vuole coinvolgere. La strada preferita è invece quella del multipolarismo, che presenta alcuni vantaggi: anzitutto consente di difendersi dall’accusa di passività o disfattismo se non si aderisce alle iniziative sponsorizzate o comunque caldeggiate dagli americani come la risoluzione Onu sulla Siria, visto che il consenso non può essere automatico nelle grandi sedi multilaterali; in secondo luogo, consente di ammorbidire le paranoie antiamericane nell’ottica delle lotte di successione all’interno del Pcc. Questo potrebbe risultare, in ultima analisi, uno strumento molto utile per emarginare le figure che, all’interno della leadership cinese, coltivano una visione tutt’altro che cooperativa.