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Cina-Giappone: equilibri di potenza alla prova

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Non è la prima e con ogni probabilità non sarà l’ultima volta: l’arresto del comandante di un peschereccio cinese da parte della guardia costiera giapponese, in acque contese, si è trasformato in uno scontro diplomatico. Ѐ in effetti la crisi più grave dal 2005, con il suo contorno, nelle strade, sui giornali e perfino nei comunicati ufficiali, di conati nazionalistici. Se però rispecchierà il collaudato copione, l’incidente sino-giapponese dovrebbe toccare presto il suo apice per poi spegnersi sommessamente. A Pechino e Tokyo infatti si sa bene – ha sottolineato nei giorni scorsi Akio Takahara*, professore dell’Università di Tokyo – che è troppo vantaggiosa per entrambi i paesi una relationship basata sugli “interessi strategici comuni”, come stabilito dall’accordo del 2008. Ma certo l’escalation di ritorsioni, di sgarbi e di ripicche che ruota intorno alla contestata sovranità sulle isole Senkaku (Diaoyu per Pechino) è un segnale preoccupante dell’instabilità nello scacchiere estremo-orientale. Conferma che la Cina intende alzare il livello di tutte le sue rivendicazioni per esercitare un maggiore controllo sui mari che la bagnano (non solo il Mar Cinese orientale ma anche quello meridionale, oggetto negli scorsi mesi di aspre dispute che hanno finito col coinvolgere gli stessi USA). Tracima dalla sfera diplomatica a quella economica, con conseguenze negative sugli scambi commerciali (controlli portati da Pechino a livelli senza precedenti) e perfino sulla industria hi-tech nipponica (si è parlato del blocco dell’export cinese di metalli rari, cruciali per alcune tecnologie avanzate). Indica novità di sostanza nell’equilibrio di potere della regione, che si manifesta con un briciolo di aggressività in più da parte cinese e una risposta da parte giapponese un po’ più sulla difensiva. Il che sembrerebbe confermare che Tokyo sta spostando le sue relazioni con Pechino dall’engagement, in chiave propositiva, al containment, con inevitabile richiamo all’ombrello americano.

Sia Cina sia Giappone sembrano cercare una pressoché impossibile quadratura del cerchio. Il loro rapporto si muove infatti in una cornice che è al contempo bilaterale e trilaterale, dove il terzo polo è costituito dagli USA. Pechino vorrebbe coinvolgere Tokyo in una strategia che costruisca la stabilità dell’Asia orientale senza interventi e protezioni di potenze esterne. Auspica insomma che i rapporti tra Tokyo e Washington si allentino mentre si rafforzano quelli tra Pechino e Washington. Punto d’arrivo, in una visione del tutto teorica, sarebbe una specie di perfetto triangolo equilatero con ai vertici le tre potenze. Anche a Tokyo, specie da quando è arrivato al potere il partito democratico (DPJ), si guarderebbe con favore a un cambiamento nei rapporti con Washington, fino a creare una capacità di difesa davvero autonoma e in sostanza a fare del Giappone una “potenza normale”. Ma, al tempo stesso, non si vuole concedere nulla alla Cina: dunque, più che allentare i rapporti con gli USA si vuole renderli simmetrici (la cosiddetta equal partnership), ci si dichiara pronti ad appoggiare “proiezioni regionali” americane e si imbastiscono intanto accordi di difesa con partner come l’Australia.

Una differenza di vedute, quella tra Cina e Giappone, che si manifesta anche nel concetto di stabilità regionale: Tokyo adotta una concezione aperta della regione, tanto che nella auspicata comunità di cui l’East Asian Summit costituisce il primo abbozzo vuole includere anche l’Australia, la Nuova Zelanda, l’India e perfino gli USA stessi. A Pechino invece si pensa a una “regione chiusa”, ovvero a un consolidamento dell’ASEAN+3 (Cina, Giappone e Corea del Sud).

Nella situazione attuale si incrociano dunque interdipendenza economica (con la conseguente esigenza di collaborare) e diverse visioni strategiche (con una diffidenza dura a morire). Su queste ultime pesa soprattutto il fatto che il Mar Cinese orientale cela enormi riserve di gas (200 miliardi di metri cubi secondo le stime giapponesi, ma molto di più secondo fonti cinesi); basterebbe questo dato a spiegare le tensioni in atto, visto che la fame cinese di energia è senza limiti mentre permane l’oggettiva difficoltà di stabilire confini marittimi e diritti sulle risorse dei mari e dei loro fondali. Alcuni accordi tra Cina e Giappone sullo sfruttamento congiunto di tali risorse negli ultimi anni sono stati raggiunti, ma non hanno ancora prodotto risultati concreti e in ogni caso non riguardano tutti i giacimenti già individuati.

Le periodiche violazioni delle acque giapponesi da parte di unità cinesi (anche se civili come nell’ultimo caso) sono una forma di controllo periodico della capacità e volontà di reazione giapponese. In questo particolare momento, però, la Cina potrebbe avere un motivo in più per attizzare la tensione. Infatti mentre è in atto un duro scontro all’interno del DPJ, il governo di Tokyo non riesce a chiudere il capitolo del trasferimento della base americana di Futenma, causa di spiacevoli attriti con Washington. Per i cinesi è pertanto logico verificare come gli Stati Uniti rispondono a una escalation di tensione nella regione e come ciò si riflette sull’alleanza USA-Giappone. Di questa opinione è ad esempio l’ex vice segretario di Stato americano Richard Armitage: “la Cina – ha detto recentemente – pensa che gli USA guardino gli avvenimenti in modo distratto (…) Noi non prendiamo posizione su chi debba avere la sovranità sulle Senkaku, ma in base ai trattati col Giappone i territori amministrati dal Giappone ricadono nella competenza dei patti di difesa. Spero che la Cina tenga questo aspetto in grande considerazione”.

Un giudizio personale, ma in linea con quanto dichiarato da Hillary Clinton ai primi di settembre: “L’amministrazione è impegnata a mantenere il maggior spiegamento militare della storia e a difendere i nostri amici e i nostri interessi”. Ѐ difficile tuttavia negare che l’instabilità politica giapponese, con il tourbillon di premier e ministri degli Esteri che ha caratterizzato il dopo-Koizumi, spinga Pechino a verificare, anche con decisioni che suonano provocatorie, dove Tokyo voglia orientare le sue scelte di fondo. In questi giorni, ad esempio, Okada Katsuya è passato dalla poltrona di ministro degli Esteri a quella di segretario generale del DPJ. Okada aveva incontrato sette volte il suo omologo cinese, con il quale si vantava di avere saputo costruire rapporti basati sulla fiducia. Il fatto che abbia lasciato l’incarico proprio nel momento in cui è in atto una seria crisi con la Cina e che a sostituirlo sia stato Maehara Seiji, considerato un “falco” rispetto a Pechino, non lancia certo segnali distensivi.

I cinesi non possono avere gradito l’interpretazione che Maehara ha dato all’incidente delle Senkaku. “Non vi è alcuna disputa territoriale in corso nel Mar Cinese orientale – ha dichiarato – dato che le Senkaku sono parte integrante del territorio giapponese”. Insomma, chiusura totale alle accuse di violare il diritto internazionale e alle “storiche” rivendicazioni di Cina e Taiwan. La tesi di Tokyo è proprio che la crisi sia alimentata ad arte da Pechino. Come ha detto l’ambasciatore Niwa Uichiro, la Cina ha adottato “misure unilaterali per collegare deliberatamente il caso della nave (che ha violato le acque territoriali) ad altre questioni che con essa non hanno alcun rapporto”.

Tutte conferme che non è pensabile una stabilizzazione dei rapporti tra una Cina in irrefrenabile ascesa e un Giappone che vede calare non solo il suo peso economico a livello regionale e globale, ma anche l’appeal del suo modello culturale, oscurato dal cosiddetto Beijing Consensus. Tokyo – per reazione – è sospinta a consolidare i rapporti con gli USA: il governo Kan sembra di fatto muoversi in questa direzione dopo gli iniziali, imbarazzanti, “distinguo” degli ideologi del DPJ. Ma l’impressione è che ormai nessun governo giapponese possa fare affidamento solo sul suo status di alleato numero uno degli americani in Asia orientale.

Con un dispiegamento navale che resta imponente, Washington non vuole lasciare dubbi sulla propria superiorità militare nell’area. Ma se l’alleanza con gli USA diventa troppo vincolante si può trasformare in una trappola per Tokyo: Washington e Pechino potrebbero davvero fare del ventilato G2 la chiave della gestione delle crisi non solo finanziarie ma anche politiche; d’altro canto, il Giappone sarebbe costretto a seguire gli USA in uno scontro frontale con Pechino se mai i rapporti USA-Cina, a causa di Taiwan, della Corea del Nord o altro, dovessero volgere al peggio.

* Un’intervista con Akio Takahara uscirà nel numero 50 di Aspenia, a metà ottobre.