I termini ricorrenti, nelle dichiarazioni del presidente Ahmid Karzai sul nuovo piano americano per Afghanistan e Pakistan che è stato annunciato il 27 marzo da Barack Obama, sono “negoziato” e “processo di “riconciliazione”. Con i talebani ovviamente. Con tutti? E se non con tutti, con quali di essi? E soprattutto, chi sono oggi i guerriglieri col turbante?
Il termine taleb o talib (studente di religione) designava i combattenti pashtun, nati in Afghanistan nel 1993 ma sostenuti, finanziati e allevati nelle scuole coraniche (madrase) dal Pakistan col sostegno dei suoi servizi segreti (Isi). Apparvero come forza d’urto nel 1994, quando i mujaheddin dell’era anti-sovietica, dopo aver conquistato Kabul nel 1992, combattevano tra loro. Guidati da mullah Omar, un contadino del Sud del clan Ghilzai, divenuto la loro guida spirituale, politica e militare, questi spesso giovanissimi combattenti, allevati a kalashnikov e corano, conquistano rapidamente due terzi del paese. Anche se la resistenza nei loro confronti non viene mai completamente piegata. Ideologicamente “puri”, hanno in effetti un’infarinatura delle teorie Deobandi, una scuola di pensiero islamista del subcontinente indiano rivista in modo rigido e semplicistico alla luce del tradizionale codice tribale pasthun. I talebani vengono inizialmente accolti come liberatori, onesti e incorruttibili. Ai loro esordi rispondevano a tre differenti esigenze: anzitutto quella interna, che chiedeva una pacificazione del paese anche a costo dei sacrifici imposti da una morale oscurantista. C’era poi l’esigenza strategica del Pakistan, che voleva un alleato sicuro e una pacificazione dell’Afghanistan eterodiretta. Infine, i talebani erano la risposta alle esigenze della mafia degli autotrasportatori, con sede a Quetta e Peshawar, preoccupati di dover pagare tangenti ai mille signorotti della guerra, trasformatisi da mujaheddin di Allah in esattori di tangenti.
Benché nel Nord e nell’Hazarajat, la famosa zona dei Budda di Bamyan, la resistenza (per un paradosso storico, in gran parte finanziata da Mosca) desse agli uomini di mullah Omar molto filo da torcere, forse i talebani avrebbero avuto ragione degli ex capi mujaheddin. Questi ultimi restavano molto divisi e venivano colpiti da spedizioni punitive in una logica ormai di pulizia etnica pashtun. Ma fu l’amicizia con Osama bin Laden a perdere mullah Omar. L’Allenza del Nord, ossia la resistenza ai talebani, appoggiata dai raid aerei americani del 2001, li mise in fuga ponendo fine all’esperienza dell’emirato talebano.
Sconfitti? L’apparizione dei neo-talebani
Dopo la loro cacciata da Kabul e Kandahar nel 2001, i guerriglieri in turbante sembrano sparire praticamente nello spazio di qualche mese, fatta eccezione per alcune sacche di resistenza nell’Est del paese. Ma dopo qualche anno, riorganizzati nelle aree tribali pashtun del Pakistan, riappaiono. Le cose ora sono cambiate: se mullah Omar può ancora contare sui vecchi alleati del tempo dell’emirato, fuggiti con lui oltre confine, sono a disposizione anche personaggi controversi come Gulbuddin Hekmatyar, un capo mujaheddin con alleanze a geometria variabile e che, da nemico dei talebani, aderisce alla nuova stagione neo nazionalista per poi distaccarsene ancora. Ci sono i vecchi combattenti che Al Qaeda aveva trasferito in Afghanistan, poi rifugiatisi in Pakistan (uzbechi, uiguri della Cina, arabi, turchi e ceceni, forse ormai una netta minoranza), ma soprattutto i nuovi adepti raccolti tra le file degli islamisti che, perseguitati nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, chiedono ospitalità nelle aree tribali del Pakistan.
Intanto, nel riorganizzare l’insurrezione per tornare in Afghanistan, Omar si è trovato a disposizione anche una nuova risorsa locale. La guerra condotta da Islamabad su pressione americana nelle aree tribali (Fata)1, per convincere le popolazioni pachistane a cacciare i talebani, ha finito in realtà per avvicinare a questi ultimi alcuni loro mullah e giovani locali. I talebani cominciano così ad essere visti non solo come i combattenti per la libertà dell’Afghanistan, ma anche come i difensori dell’identità pathan (termine con cui si indicano i pashtun del Pakistan). Quello dei talebani o neo-talebani tende dunque a configurarsi ormai come un movimento “nazionalista” benché usi l’islam come veicolo su entrambi i lati del confine. E finisce per essere percepito – ha fatto notare l’analista Graham Usher – come l’equivalente di Hamas o Hezbollah. Per i talebani pachistani sono soprattutto le Fata il capitolo all’ordine del giorno: aree tradizionalmente indipendenti ma poverissime dove tende ciclicamente a rifiorire il vecchio sogno transfrontaliero del Pashtunistan, la terra dei pashtun/pathan.
La nebulosa talebana
I talebani, o meglio i neo-talebani, non sono dunque una galassia omogenea. Lo studioso Raspal Khosa descrive il fronte guerrigliero come un “…consorzio di gruppi militanti sunniti estremisti”. Anand Gopal definisce i talebani afgani un “melange di nazionalisti, islamisti e banditi” diviso in diverse fazioni. L’analista pachistano Syed S. Shahazad, ha identificato, a partire dal 2003, un’emigrazione verso il Waziristan di guerriglieri attivi nel Kashmir, che in molti casi avevano ricevuto un training dagli agenti dell’Isi (la cosiddetta “cellula India”). Sono portatori, oltre che di fervore ideologico, di tecniche raffinate tra cui la strategia dei “tre passi” cara a Vo Nguyen Giap: un attacco massiccio in primavera seguito da attacchi isolati contro centri e personale nemico e l’estensione dell’insurrezione nei centri urbani. Parte di questa milizia si salda coi militanti islamisti stranieri e col neonato Tehrek-e-Taliban di Beitullah Mehsud (accusato della morte della Bhutto nel 2008). Nel 2007 la rete è ben consolidata e si è nutrita dell’arrivo di ex militari che si sentono traditi dalla politica di Musharraf. Si tengono sedute ideologiche, incontri di teologia, confronto sulle tesi qaediste; ma questa resta comunque una rete disomogenea anche negli obiettivi.
Sul fronte afgano, le cose non sono meno complicate. Vari episodi recenti indicano che non esiste un unico comando strategico in grado di pianificare tutte le azioni, specie quelle di una certa entità.
Nel 2006 L’International Crisis Group (ICG) stimava che nella provincia meridionale dell’Helmand solo il 20% dei guerriglieri fossero “ideologicamente” talebani. Secondo altre fonti riceverebbero una paga diaria superiore a quella dei militari dell’esercito afgano e combatterebbero la notte per tornare, la mattina, al lavoro nei campi (spesso, di papavero). Come ha spiegato il mullah Dadullah, un comandante taleb di vecchia data e antico sodale di mullah Omar, morto in un’operazione Nato, “prendere le città non è parte della nostra tattica…che è quella del mordi e fuggi…siamo noi che decidiamo quando attaccare…poi torniamo nelle nostre basi sicure”, per lo più nella cintura tribale pachistana, sulle montagne Sulaiman che dividono i due paesi. La struttura della catena di comando strategico politico dei talebani farebbe sempre capo a mullah Omar, ancora secondo l’ICG.
Denaro, pragmatismo e ipotesi negoziali
Possiamo così sintetizzare la struttura attuale della “nebulosa” in Afghanistan, che si muove comunque in un’area etnicamente omogenea: un fronte Sud che fa capo a mullah Omar, e un network solo parzialmente coordinato nell’Est.
Secondo Gopal Anand, ci sono segnali di pragmatismo e forse moderazione. D’altra parte, i Talebani sarebbero in grado, e non solo nelle province ribelli per eccellenza di Kandahar ed Helmand, di amministrare la giustizia, garantire l’ordine e il controllo della criminalità, dirimere questioni di proprietà. E pagare stipendi anche di duecento dollari al mese.
Il denaro non è un fatto secondario nell’era dei neo-talebani, e sembra descrivere una parabola più “colombiana” che irachena. E’ ben noto che l’oppio incide prepotentemente nell’economia dell’Afghanistan (secondo alcune stime, l’introito del mercato illegale è pari a circa metà di quello dell’’export legale): il guadagno che talebani e criminalità organizzata ne ricaverebbero, attraverso tasse sul raccolto e proventi per la protezione di coltivazioni e laboratori, sarebbe nell’ordine di 200-400 milioni di dollari. E il dato mostra una rapida crescita in atto.
Questo elemento, fondamentale per finanziare la guerra e consentire maggiore autonomia dai tradizionali donatori esterni (pachistani, sauditi, arabi del Golfo o “collette” autogestite in Pakistan) non può non aver modificato la purezza ideologica delle milizie col turbante. Probabilmente favorendo la formazione di nuove e più pragmatiche formazioni con la tentazione di lavorare in proprio, distanti dai dettami della guida spirituale. Lo stesso sembra valere per i rapporti con Al Qaeda e dunque per la scelta delle strategie da adottare: conquista e controllo territoriale, cui sarebbe più orientata la leadership afgana di Omar, o attentati kamikaze, di cui sembrano grandi fautori la rete di Mehsud o degli Haqqani. Tutto ciò rappresenta un pericolo (la trasformazione di intere aree in narco-province con rapporti mafiosi a Kabul) ma anche un fattore di divisione e dunque di debolezza di un fronte frammentato e disomogeneo, non solo nelle scelte militari. Resta il fatto che, ad oggi, questo fronte riesce, in molte aree fuori controllo o dove lo stato centrale è assente o sinonimo di corruzione, a garantirsi (più o meno coercitivamente) consenso popolare.
Nel 2009, per rispondere alla nuova sfida americana, mullah Omar ha lanciato una sorta di piano strategico per unificare tutte le varie anime combattenti del disomogeneo movimento. Gli obiettivi della varie componenti continuano però ad essere diversi, e il suo manifesto, che ha come obiettivo la guerra agli invasori, rischia di fallire. Anche e soprattutto se il nuovo piano americano lanciato da Obama , la prima vera svolta politica in una guerra in fase di stallo, saprà sfruttare debolezze e divisioni del vasto fronte talebano.
1 Federally Administered Tribal Area, area tribale autonoma divisa in sette “agenzie” situata a ridosso della frontiera afgana all’interno della North West Frontier Province.