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Business e geopolitica nella gestione del rischio

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Il concetto di rischio è ampio, piuttosto indefinito e per certi versi paradossale. Per alcuni settori è parte integrante del gioco – si pensi alle assicurazioni e alla finanza – mentre per altri sembra quasi la negazione dell’ordine e della prosperità – si pensi ai dossier gestiti dai Ministri dell’Interno e della Difesa. Il rischio è allora un risvolto dell’opportunità oppure il lato oscuro del caos? Probabilmente, è entrambe le cose: c’è dunque un curioso contrasto di prospettive nel nostro mondo fortemente interdipendente.

Un primo passo per chiarire i termini del problema è fornire una più dettagliata descrizione di diverse categorie di rischio, come hanno tentato di fare i partecipanti alla Conferenza di Aspen Institute Italia e Chatham House tenutasi a Venezia il 6-7 marzo.

Anzitutto vi sono i tradizionali rischi geopolitici e statuali: contrasti tra governi incentrati su questioni di sovranità e quello che i teorici delle relazioni internazionali definiscono “potere relativo” o relazionale – in sostanza una competizione diretta tra Stati concepita come un gioco a somma zero.

Una seconda categoria è quella dei rischi geoconomici non facilmente visibili, dovuti a una forte interdipendenza e agli effetti-contagio – come il fenomeno che ha provocato la crisi “sistemica” dal 2008 a partire dalla finanza e dai mutui negli Stati Uniti.

Alcuni rischi – in entrambe le categorie precedenti – possono poi crescere (trasformandosi in minacce immediate) perché è bassa la capacità di gestirli in una fase precoce e in chiave preventiva. Da ciò deriva, tra l’altro, una constatazione sul ruolo specifico delle autorità politiche: la loro credibile volontà di intervenire, almeno a certe condizioni, è di per sé un fattore di mitigazione dei rischi; viceversa, puntare soltanto sullo scenario migliore (e procrastinare) è una fonte di rischio aggiuntivo, riducendo il livello di fiducia nei cittadini/consumatori. Una volta caduto il grado di fiducia, risulta assai difficile farlo risalire e si può restare intrappolati in una spirale di aspettative negative – un dilemma, soprattutto sul piano economico, che l’eurozona conosce fin troppo bene di questi tempi.

In termini più generali, c’è un’importante asimmetria che emerge dal dialogo tra mondo economico e mondo politico: molti sondaggi di opinione tra i business leader mostrano che le preoccupazioni principali sono quelle relative proprio alle forze del mercato – competitor, regole (siano esse carenti, eccessive, contraddittorie), andamento della domanda e offerta in vari settori e la relativa dinamica dei costi, ecc. Imprenditori e manager sono talvolta accusati di mancare di una visione strategica (a favore di un focus quasi ossessivo sul breve termine), ma d’altra parte sviluppare un pensiero strategico è proprio il ruolo privilegiato delle autorità politiche – o dovrebbe esserlo. Il processo democratico sottopone però i leader a pressioni contrastanti: da un lato gli elettori confidano appunto nella capacità delle élite politiche di guardare al “bene comune” in modo lungimirante, ma dall’altro pretendono soluzioni pragmatiche e rapide ai maggiori problemi del momento, e ovviamente sono in grado di punire gli eletti non aver corrisposto alle loro aspettative.

Del resto, la stessa volatilità può essere un’opportunità, quantomeno se una situazione instabile o di squilibrio crea lo spazio di azione per posizionarsi in vista del futuro. Prendere l’iniziativa in una fase di alta volatilità è una classica forma di investimento. In effetti il business vive nell’incertezza perché è proprio sul rischio che si costruisce il profitto; la politica ha un altro atteggiamento, e tende a percepisce il rischio – quantomeno al livello della comunicazione pubblica, o se si vuole della retorica – come un dato necessariamente negativo.

A fronte delle molte divergenze tra economia e politica, vi sono rilevanti punti di incontro. Uno di questi è il fattore tempo, che quasi sempre è decisivo: in molti casi introdurre un cambiamento o lanciare un processo di riforme è rischioso e costoso nel breve termine, ma riduce alcuni rischi nel medio e lungo termine. Si tratta dunque di definire il migliore trade-off tra rischi di tipo diverso sulla scala temporale – come ad esempio rispetto ai cambiamenti climatici, che pongono una sfida mascroscopica ma producono effetti rilevabili soprattutto su tempi medio-lunghi e dunque creano la quasi irresistibile tentazione di procrastinare.

Un particolare punto di intreccio tra rischi geopolitici e logica economica è costituito dalle sanzioni economiche, sempre più frequenti nel panorama internazionale degli ultimi anni. Le sanzioni sono un modo per esercitare pressioni politiche con strumenti economici – sperando di riportare un conflitto di interessi verso dinamiche negoziali pacifiche, come i Paesi occidentali hanno fatto da circa un decennio nei confronti del programma nucleare iraniano e più recentemente contro la Russia per la vicenda ucraina.

In estrema sintesi, il disordine (perfino a livello globale) non è di per sé un pericolo per il mondo economico, ma una sorta di condizione di fondo che viene sostanzialmente “scontata” nei calcoli e nelle proiezioni. Il problema è piuttosto nel rapporto tra la logica del profitto economico e quella della pianificazione politica e strategica – poiché quest’ultima deve per sua natura tutelare interessi più vasti rispetto al solo vantaggio economico, e deve farlo attraverso gli strumenti del consenso espresso con il voto. Sfruttare le opportunità economiche è certamente decisivo anche per perseguire altri obiettivi, ma non va mai dimenticato che la legittimità di cui hanno bisogno i leader governativi va oltre il successo delle aziende nazionali e perfino la solidità dei bilanci statuali.

Le società contemporanee, anche nei Paesi meno integrati nei grandi flussi dell’interdipendenza globale, sono esposti a molti rischi, antichi e nuovi; è opportuno riflettere sul fatto che una divaricazione eccessiva tra le dinamiche economiche e quelle politiche crea un vero rischio aggiuntivo, cioè la perdita di una cruciale cinghia di trasmissione tra cittadini comuni e grandi concentrazioni di potere. È un rischio che può essere mitigato – sebbene non del tutto eliminato – da un confronto costante tra istituzioni, grandi aziende multinazionali, imprenditori di medie e piccole dimensioni più radicati su un dato territorio, e vari “corpi intermedi”. Si tratta di un’esigenza culturale e intellettuale sempre più importante nel mondo contemporaneo.