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Berlino e Washington: le sfide di politica estera per il nuovo governo Merkel

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Le difficili decisioni relative all’intervento americano in Iraq del 2003 furono un passaggio decisivo nel definire l’approccio di Angela Merkel alla politica estera. Il rifiuto di partecipare alla guerra in Iraq voluta dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush rappresentò una delle scelte fondamentali del governo federale tedesco guidato allora dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder. Suo vice era Joschka Fischer, ministro degli Esteri e leader storico dei Verdi: fra i due, l’intesa sugli affari internazionali è sempre stata totale. Secondo molti analisti, quella decisione di politica estera contribuì in maniera determinante a fare sì che il Partito socialdemocratico (SPD) e i Grünen sconfiggessero nuovamente lo schieramento conservatore alle elezioni del settembre 2002: l’opinione pubblica tedesca aveva dato ancora una volta prova di essere molto sensibile al delicatissimo tema della guerra e della pace.

Al momento del voto il dibattito sull’intervento americano era aperto, le intenzioni di Washington chiare, e Bush Jr. si muoveva alla ricerca del necessario consenso fra gli alleati: e Berlino aveva già detto chiaramente di non essere disposta a farsi coinvolgere. Nei cruciali mesi in cui andava formandosi la coalition of the willing non mancarono, all’interno del mondo politico della Repubblica federale, quanti ritenessero sbagliata la posizione di Schröder e Fischer.

Fra di loro c’era l’attuale cancelliera Angela Merkel, allora come ora leader dell’Unione cristiano-democratica (CDU). A suo avviso, negare a priori la disponibilità a seguire gli USA significava condannare la Germania all’isolamento internazionale: la scelta corretta era quella di Paesi come il Regno Unito e la Spagna, che – come è noto – aderirono al piano del presidente Bush. Per dare la massima visibilità al dissenso nei confronti del governo del proprio Paese, e per lanciare un segnale di vicinanza alla Casa Bianca, Merkel si recò a Washington, in veste ufficiale di leader dell’opposizione, a condividere di persona le proprie valutazioni con la dirigenza americana. Un viaggio che fu preceduto da un fatto quasi senza precedenti: un articolo a sua firma sul Washington Post, durissimo nei confronti di Schröder.

Proprio le vicende legate alla guerra in Iraq mostrano quali credenziali di atlantismo abbia sempre potuto esibire la leader della CDU, cresciuta oltre la cortina di ferro nella Germania del “socialismo reale”. Una volta assunta la guida del gabinetto di grosse Koalition, in seguito al sostanziale pareggio con la SPD nelle elezioni anticipate del 2005, la prima donna cancelliere della storia tedesca ebbe l’opportunità di marcare la differenza rispetto al suo predecessore: dal cambio al vertice dell’esecutivo derivò un nuovo clima di collaborazione con la Casa Bianca, rappresentato anche dal sostegno incondizionato offerto da Merkel alle posizioni del governo americano sul contrasto al programma atomico dell’Iran. Le cronache della prima visita ufficiale da capo del governo alla Casa Bianca riportano parole di encomio nei suoi confronti da parte di Bush Jr, dalle quali traspare con la massima evidenza il gradimento di Washington per la nuova interlocutrice.

E tuttavia, riconosciuto il nuovo calore in rapporti che si erano un po’ raffreddati, dall’insediamento di Merkel non vennero in effetti autentiche svolte: le linee di fondo della politica estera tedesca rimasero sostanzialmente le stesse. Il ministro degli Esteri della “grande coalizione” era il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier (ora fresco di rinomina nel medesimo ruolo), che s’impegnò a mantenere proficui i rapporti che la Germania a guida Schröder era andata sviluppando con la Russia di Vladimir Putin. Rapporti fondati su una visione geopolitica contraria all’isolamento di Mosca, ma anzi favorevole ad un suo coinvolgimento nelle vicende europee, in maniera tale da garantire affari e approvvigionamento energetico: una sorta di nuova Ostpolitik del dopo-Ottantanove.

Anche l’attenzione verso la Cina, enorme partner commerciale, continuò a crescere. Ciò che il primo gabinetto Merkel smise di volere fu il seggio permanente della Germania nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, una rivendicazione ormai uscita dall’agenda della politica estera tedesca. Non venne meno l’impegno in Afghanistan, mentre gli sviluppi altamente problematici della situazione in Iraq diedero in un certo senso ragione, a posteriori, a chi si era opposto a quell’avventura bellica.

La legislatura successiva, conclusasi a settembre del 2013, ha visto l’interesse dei principali attori concentrarsi quasi esclusivamente sulla gestione della crisi economico-finanziaria mondiale, divenuta successivamente crisi dell’eurozona: la politica estera, in senso stretto, ha perso centralità. Al di là del contesto, un ruolo lo ha giocato anche il fatto che il titolare del dicastero degli esteri, il liberale Guido Westerwelle, non si è rivelato particolarmente adatto all’incarico: la sua permanenza alla guida della diplomazia tedesca non passerà certamente alla storia, a differenza di quanto accadde per i suoi colleghi di partito che condussero nel passato lo stesso ministero – figure del calibro di Walter Scheel e Hans-Dietrich Genscher. 

L’ascesa di Barack Obama alla presidenza degli USA ha reso intanto più agevole il lavoro delle cancellerie europee, non più costrette a confrontarsi con le decisioni dettate dalla visione “interventista” di Bush Jr. Le sfide, tuttavia, non sono mancate. In primo luogo, sul versante “diplomatico” della gestione della crisi economica, sono note le divergenze fra la Casa Bianca e la cancelliera tedesca circa le misure più opportune per riavviare l’economia del vecchio continente e contribuire così alla ripresa mondiale: alla propensione alla spesa dell’uno si contrappone la preferenza per il risparmio dell’altra.

In secondo luogo, sono arrivati i rivolgimenti della sponda meridionale del Mediterraneo: in particolare, ha causato difficoltà nelle relazioni bilaterali la scelta dell’astensione del rappresentante tedesco nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla Risoluzione 1973 riguardante l’intervento della NATO in Libia nel 2011. Una decisione – criticata da alcuni fautori dell’interventismo umanitario a destra come a sinistra – che ha accomunato la Repubblica federale a Russia e Cina, segnando nuovamente una rimarchevole differenza rispetto agli Stati Uniti: a dimostrazione che, dietro un apparente atlantismo oltranzista, le posizioni di Merkel si rivelano essere più complesse, dettate più dal suo proverbiale pragmatismo che non dall’etica della convinzione.

Se le divergenze relative alla Libia non sono comunque mai sembrate di una portata preoccupante, non altrettanto può dirsi delle vicissitudini dei mesi scorsi intorno alle rivelazioni di Edward Snowden e alla scoperta delle massicce operazioni di spionaggio da parte dei servizi americani ai danni sia della popolazione, sia delle istituzioni tedesche (e dell’Unione Europea) – compreso addirittura il telefonino della Cancelliera stessa.

L’irritazione è stata molto grande, e da più parti – ad esempio la SPD, il neo-alleato di governo di Merkel – si sono levate voci richiedenti a gran forza, come misura di ritorsione, la sospensione delle trattative in corso sul Trattato di libero scambio tra UE e Stati Uniti (TTIP). Un trattato sostenuto, in realtà, da molti settori dell’economia tedesca, che vedono aprirsi ulteriori possibilità di aumentare il volume delle esportazioni.

Una vicenda, quella dello spionaggio su larga scala, che in fondo ha posto nuovamente la questione che si trovava al centro delle analisi nell’era di Bush Jr.: le forme dell’agire concreto di una grande potenza, di un “impero”. E il significato dell’esserne “amici”, da parte di paesi come la Germania, quando le relazioni internazionali palesano la loro essenza di rapporti di forza, in cui sono in gioco non i valori, ma risorse militari, tecnologiche ed economiche.