L’ondata di protesta che ha scosso il Bahrein dal 14 febbraio del 2011 è al suo secondo anniversario: è la cosiddetta “Primavera della Perla”, dal nome della piazza della capitale Manama che è stata l’equivalente di Piazza Tahrir al Cairo. Il paese è stato teatro di violenti scontri tra i manifestanti e il regime di Re Hamad bin Isa Al Khalifa, con l’arresto di circa 3.000 persone. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha inviato 2.000 soldati per aiutare il re a tenere la situazione sotto controllo. Il governo di Manama ha poi adottato leggi d’emergenza, invocando l’imperativo della sicurezza nazionale e la necessità di mantenere l’ordine.
Il regno degli Al Khalifaha un ruolo importante nel mondo sunnita: il Bahrein è legato indissolubilmente all’Arabia Saudita, con rapporti tribali vecchi di secoli. Non a caso, Riyād, all’indomani dello scoppio dei disordini, ha subito accolto la richiesta di soccorso proveniente dall’arcipelago. Gli Al Khalifa sono poi solidi alleati di Gran Bretagna e Stati Uniti, ed ospitano la Quinta Flotta americana, una forza navale strategica in chiave di contenimento dell’Iran e di salvaguardia dei traffici lungo lo stretto di Hormuz.
L’opposizione interna al Bahrein, guidata dal partito e movimento sciita al-Wifaq, è stata accusata di assecondare gli interessi iraniani, nonostante non sia mai emersa alcuna prova in tal senso. I dissidenti sostengono di voler promuovere la democratizzazione del regime, al di là delle logiche settarie, dal momento che la comunità sciita bahreinita non gode di un’equa rappresentanza politica: gli sciiti rappresentano il 70% della popolazione totale, ma sono stati storicamente sotto-rappresentati. Inoltre, lo Stato ha incoraggiato la naturalizzazione di immigrati sunniti, di provenienza varia (Yemen, Siria, Giordania, Pakistan, sud-est asiatico) proprio con l’obiettivo di ridurre lo squilibrio demografico con gli sciiti.
In seguito alle condanne internazionali per la dura repressione del febbraio 2011, il re ha cercato di placare lo scontento con un rimpasto ministeriale. Hamad ha rimosso dai rispettivi incarichi quattro ministri; tuttavia, ad oggi più della metà dei ministri appartengono alla famiglia reale, in particolare con i dicasteri-chiave come Esteri, Interni, Difesa, Affari Islamici, Giustizia e Finanze.
Il re ha inoltre convocato una commissione d’inchiesta, almeno formalmente indipendente. Questa ha ultimato i lavori nel novembre del 2011, ma nonostante la presenza tra i suoi membri di personalità super partes la commissione si è rivelata sostanzialmente inefficace.
A poco sono serviti gli appelli alla riconciliazione nazionale lanciati dalle autorità: fin dal giugno del 2011 Hamad aveva invocato il dialogo con l’opposizione, ritirando l’esercito dalle strade di Manama a dimostrazione della propria buona fede. Allo stesso tempo, però, aveva rafforzato la presenza della polizia e minacciato ritorsioni verso i manifestanti.
L’opposizione, dal canto suo, ha denunciato che le proteste avevano avuto un carattere pacifico fin dall’inizio, salvo radicalizzarsi dopo le prime offensive da parte del regime. Anche le richieste hanno così subito un’evoluzione: il portavoce del partito al-Wifaq, Khalil al-Marzuq, nei primi giorni di protesta aveva negato ogni intenzione di attaccare direttamente agli Al Khalifa e il sistema monarchico. Lo scopo dei sit-in era infatti la richiesta di riforme concrete, dato l’esito deludente delle elezioni parlamentari svoltesi nell’ottobre del 2010. In quell’occasione, al-Wifaq aveva ottenuto 18 seggi dell’assemblea monocamerale (su 40), mentre i due partiti sunniti maggioritari, al-Asala ed al-Minbar, avevano ottenuto in tutto cinque seggi. A fronte di ciò, ben 17 seggi erano stati conquistati da candidati ufficialmente indipendenti ma comunque riconducibili al mainstream sunnita. Con questa tecnica, il regime è sempre riuscito ad assicurarsi il controllo del parlamento, potendo anche vantare l’immagine di una compiuta transizione verso una monarchia costituzionale così com’era prevista dalla nuova Costituzione del 2002.
In realtà, si è registrato il perseverare delle violazioni dei diritti umani, e intanto l’Investors Service di Moody’s ha penalizzato il rating di ben tre banche del paese, subito dopo aver ridimensionato anche i buoni ordinari del tesoro. Vi sono insomma dubbi significativi sulla tenuta complessiva del sistema.
Sul piano internazionale, la primavera bahreinita non ha in effetti ottenuto la medesima risonanza di altri teatri. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno più volte condannato l’eccessiva brutalità con cui il regime ha domato la rivolta, ma non ci sono state gravi conseguenza pratiche. Tuttavia, gli Stati Uniti stanno prendendo in considerazione l’ipotesi di spostare il quartier generale delle proprie forze navali in un altro paese, considerando il ruolo primario per la strategia americana che la Fifth Fleet svolge in quel quadrante geopolitico. Da essa, infatti, dipendono tutte le missioni che agiscono nel Golfo Persico e nel Mar Rosso, fino alle coste dell’Africa orientale.
Di recente, il Foreign Office britannico ha accolto positivamente un nuovo appello lanciato dalle istituzioni del Bahrein per un dialogo di unità nazionale – in occasione del secondo anniversario della protesta, il ministro della Giustizia e degli Affari islamici, shaikh Khalid bin Ali Al Khalifa, si è offerto di incontrare l’opposizione, dopo un primo contatto fallimentare nell’agosto del 2012.
Gli altri stati arabi, e non solo quelli del Golfo, hanno manifestato scarsa simpatia e sostegno alla protesta del Bahrein. Il silenzio sunnita si spiega con il timore di un possibile aumento dell’influenza sciita ed iraniana sul mondo islamico. Una delle poche voci fuori dal coro è stata quella di Yusuf al-Qaradawi, un esperto laureato ad al-Azhar, con doppio passaporto egiziano e qatariota. Al-Qaradawi, pensatore sunnita riconosciuto internazionalmente e ospite abituale di Al-Jazeera, ha definito apertamente gli scontri verificatisi nel regno come scontri settari.
Le monarchie del Golfo, naturalmente, non hanno visto di buon occhio la Primavera della Perla nel timore che diventasse simbolo delle richieste di democrazia e diritto d’espressione. Infatti, all’interventismo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, volto a mantenere lo status quo, si è aggiunto un largo impiego della retorica legata allo scontro settario che ha fornito un’immagine distorta degli eventi. A livello mediatico, soltanto la tv libanese legata a Hezbollah, al-Manar, ed alcune stazioni sciite irachene hanno dato notizia di quanto accaduto in Bahrein.
Il 25 gennaio scorso, nello stadio di al-Rifa’a, la seconda più grande città del Bahrein nonché area in cui è vietato agli sciiti possedere o affittare immobili, si è svolta la manifestazione Thank you Bahrein: circa 18.000 persone, tra locali ed immigrati, si sono radunate per ringraziare le istituzioni dei continui sforzi volti al mantenimento della pace e della coesione sociale. L’evento, che ha visto la piena partecipazione dei lavoratori espatriati indonesiani e malesi, rientra nella strategia di integrazione delle comunità sunnite, per creare equilibrio con la popolazione sciita.
Contestualmente, il ministro degli Interni ha invece vietato le manifestazioni programmate a Manama per lo stesso 25 gennaio, con le quali al-Wifaq intendeva commemorare la Primavera della Perla, in vista del suo secondo anniversario. L’opposizione ha cercato di appellarsi alla comunità internazionale, con scarsi risultati.
Nel complesso, la situazione che si è creata in Bahrein a seguito dell’ondata di rivolte nel mondo arabo rimane incerta; essa dimostra comunque che la preservazione di un delicato equilibrio regionale, unitamente alla scarsa solidarietà inter-araba, riesca talvolta a prevalere sulle concrete richieste popolari di riforme e democrazia.