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Alleanze in movimento per il Pivot to Asia americano

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Una fonte di debolezza per la politica asiatica della Casa Bianca è rappresentata dai contrasti tra Tokyo e Seul, più forti della pur convinta accettazione da parte di entrambi i paesi asiatici della protezione militare americana. In Giappone e Corea del Sud le elezioni pressoché contemporanee, a dicembre, hanno portato grandi novità. Ma queste non vanno nella direzione auspicata dagli USA: si profila infatti un sistema di alleanze “a geometria variabile”, difficile da gestire per Washington, condizionato com’è da attriti che vengono da lontano. Semmai a facilitare la strategia denominata Pivot to Asia, che proprio nell’allargamento e nella ridefinizione delle alleanze dovrebbe avere il suo cardine, potrebbe contribuire l’imprevedibilità della Corea del Nord: questa è tornata ad essere una fonte di preoccupazione condivisa, dopo l’esperimento missilistico di dicembre, raffreddando le speranze di cambiamento suscitate dall’avvicendamento al vertice del regime di Pyongyang.

Obama ha inaugurato il suo secondo mandato con l’annuncio che USA, Giappone e Corea del Sud terranno periodici colloqui sulla sicurezza e che il primo di questi incontri si svolgerà a Tokyo entro gennaio (per gli americani parteciperà il vice segretario alla Difesa, Mark Lippert). Potrebbe essere un segnale importante sullo sfondo delle recenti tensioni, anche perché Abe ha inviato a Seul una lettera in cui si afferma che “la Corea del Sud è il più importante vicino del Giappone” e Park ha risposto auspicando che “si costruiscano fiducia e amicizia”.

La situazione resta però molto delicata: nel contempo, infatti, Seul ha negato l’estradizione per un cinese che ha appiccato il fuoco ad un’entrata dello Yasukuni, il santuario di Tokyo dove si ricordano tutti i caduti giapponesi, criminali di guerra compresi. Ha chiesto poi all’apposito comitato dell’ONU di riconoscere alla Corea una piattaforma continentale che le consenta di ampliare la sua zona economica esclusiva fino alla fossa di Okinawa: ciò significherebbe non solo ridurre drasticamente mari e fondali disponibili per il Giappone nel Mar cinese orientale, ma anche allinearsi alle analoghe pretese di Pechino e creare una sorta di fronte comune sino-coreano contro il Giappone. Ovvia la piccata reazione negativa di Tokyo, che ha bloccato sul nascere l’iniziativa (perché la commissione ONU si muova occorre il consenso di tutte le parti in causa). Il nuovo premier Abe si è poi affrettato a fare un altro passo, ancora più grave nell’ottica dei rapporti nippo-coreani: ha detto che non si sente vincolato dalla Dichiarazione del 1995 in cui il Giappone si scusava per le sofferenze recate durante la sua “guerra di aggressione”. Come se non bastasse, il numero due del governo, Suga Yoshihide, ha fatto capire che anche la Dichiarazione del 1993 sulle responsabilità del Giappone circa la riduzione in schiave sessuali di decine di migliaia di donne potrebbe essere ridiscussa in nome di un revisionismo storico che contesta “la versione dei vincitori”.

È pur vero che Abe, a livello generale si sta muovendo nella direzione auspicata da Washington, visto che intende resuscitare la “diplomazia dei valori”, fondata sulla priorità ai paesi che condividono principi di base come democrazia o rispetto dei diritti umani – la stessa linea che aveva tentato di seguire durante il suo precedente effimero governo nel 2006/7. Ha anche ribadito che l’alleanza con gli Stati Uniti va rilanciata dopo il triennio in cui il Partito Democratico al potere aveva innervosito non poco Washington. Ha annunciato inoltre che modificherà le linee guida della difesa nazionale elaborate dal Partito Democratico rimpiazzando il concetto di “difesa di base” con quello di “difesa dinamica”. Ciò significa che in futuro il Giappone non disporrà solo di un deterrente contro aggressioni dirette e che la deterrenza si allarga all’intero scacchiere dell’Asia orientale attraverso la capacità di dispiegare unità operative al di là dei confini e compiere operazioni di sorveglianza e training. Significa anche aumentare le spese militari (dopo un decennio di continui tagli) e bloccare la riduzione degli effettivi delle Forze di autodifesa. Il tutto inserito nella revisione della Costituzione che con le sue clausole pacifiste ha finora reso difficile – seppure non impossibile – venire incontro alle richieste statunitensi di una maggiore responsabilizzazione a livello regionale.

Sulla Costituzione nipponica Obama preferisce tacere, ma non può non sapere che la vicenda apre scenari contraddittori proprio in funzione del Pivot to Asia. Modificare il famoso Articolo 9 e dotare il Giappone di un “normale” esercito suona infatti come la chiusura di un’epoca che, vista da Tokyo, si caratterizzava con la scelta di delegare al vincitore americano la sicurezza nazionale nella consapevolezza (fondata) che questo avesse mezzi e volontà per garantirla. La nuova epoca – Obama non lo nasconde – si annuncia multipolare, con gli Stati Uniti non più in grado di fare tutto da soli, e pertanto costretti a sollecitare un aiuto che solletica il nazionalismo. E questo, pur non assumendo colorazioni antiamericane, fa lievitare, in una direzione non voluta dagli USA, antiche rivalità.

In tale contesto la triangolazione USA-Giappone-Corea del Sud non è affatto facile, e forse perfino illusoria. Con Seul le intese sono più facili, ed anzi la presidenza Park e la scelta a Washington dei nuovi responsabili degli Esteri e della Difesa, John Kerry e Chuck Hagel (a meno di sorprese per la conferma al Senato), prefigura convergenze significative sul tema chiave della Corea del Nord: guadagnano terreno infatti i fautori del cosiddetto conditional engagement. Con Tokyo, invece, occorre molta cautela per evitare passi falsi. Ne costituiscono un segnale gli ultimi sviluppi sulla crisi delle Senkaku: Abe ha mostrato che intende rispondere “colpo su colpo” alle iniziative cinesi – al vertice dell’escalation si colloca ora l’entrata in azione dell’aeronautica – pur sottolineando che suo obiettivo non è accrescere la tensione con la Cina, considerata un partner fondamentale e insostituibile. Nel mostrare i muscoli, si fa forte dell’endorsement del Congresso americano che, con un provvedimento peraltro non vincolante per l’esecutivo, ha inserito le Senkaku nei territori “sotto controllo” del Giappone: pertanto, se il gioco delle reciproche provocazioni degenerasse, potrebbero scattare le clausole del Trattato di difesa nippo-americano e gli USA rischierebbero un diretto coinvolgimento militare nella crisi.

Tokyo peraltro sembra spingere con decisione verso un allargamento del quadro delle alleanze che, talvolta implicitamente, altre esplicitamente, sembrano disegnate in alternativa a quella con la Corea del Sud. Il Vietnam – corteggiato anche dagli USA e dalla stessa Corea del Sud – è in testa alla lista dei nuovi amici ed è stato significativamente la meta della prima visita all’estero di Abe (il 16 gennaio). La visita, che era stata preceduta da quella del nuovo ministro degli Esteri Kishida Fumio nelle Filippine, è poi proseguita in Thailandia e Indonesia: indice evidente dell’interesse di Tokyo per l’area ASEAN in vista di un primo abbozzo di alleanza che avrebbe anche ricadute militari (come sollecita ad esempio il governo di Manila).

Più scontato come partner l’Australia, dove nella sua recente visita Kishida ha concordato di rafforzare la “cooperazione per la sicurezza”, partendo con un accordo sulla fornitura di “servizi militari”. Ma la vera novità della gestione Abe potrebbe essere l’India, nel momento in cui a Nuova Delhi si rafforza la convinzione che l’Oceano Indiano sta stretto per le esigenze ed ambizioni di un paese in forte crescita che vuole ragionare da grande potenza ed è pronto a proiettarsi nel Pacifico. In un suo recente libro Abe ha scritto: “Non mi sorprenderebbe se tra dieci anni le relazioni del Giappone con l’India fossero più importanti di quelle con la Cina e con gli USA”. L’India quindi come spalla strategica nell’ipotetico contenimento della Cina, ma anche come fondamentale partner economico, specie ora che il Giappone sembra tornare a puntare sul nucleare.

È per questo che in filigrana il Pivot to Asia mostra alleanze a geometria variabile con due punti fermi. Da un lato la minaccia nordcoreana, che può tornare utile a Washington per indurre Seul e Tokyo a mettere la sordina sul loro contenzioso. Dall’altra lato la diffidenza verso l’Impero di mezzo che accomuna – per ineliminabili ragioni culturali e ideologiche prima ancora che per contingenti considerazioni strategiche o commerciali – gli USA al Giappone, all’India, al Vietnam, e a quasi tutti i membri dell’ASEAN.