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Affari cinesi

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I presidenti degli Stati Uniti incontrano il Dalai Lama: così ha fatto Bill Clinton, così ha fatto G.W.Bush. E la Cina protesta regolarmente. Si potrebbe concludere, quindi, che l’incontro fra Barack Obama e il leader spirituale del popolo tibetano è un non evento. Ma invece un evento lo è. Per motivi che non riguardano tanto la questione del Tibet (è cambiato poco, su questo); ma riguardano molto i rapporti di forza fra gli Stati Uniti e la Cina. E qui le cose sono invece cambiate, se non altro da un punto di vista psicologico.

Va detto, anzitutto, che la politica cinese di Obama è in seria difficoltà. L’idea iniziale era di costruire un rapporto forte, strategico, con Pechino – il famoso G2. Per raggiungere tale obiettivo, Obama è stato molto “morbido”, in partenza: ha insomma giocato leggero, offrendo fra l’altro a Pechino proprio il rinvio (prima della sua visita a Pechino del novembre scorso) dell’incontro con il Dalai Lama.

Ma il Presidente degli Stati Uniti non ha ottenuto granché, da Pechino: né gesti di buona volontà in campo monetario (come si sa, Washington ritiene che il renminbi dovrebbe rivalutarsi per contribuire a ridurre gli squilibri commerciali globali), né un atteggiamento cooperativo a Copenaghen sull’ambiente, né un appoggio alle sanzioni contro l’Iran. L’assenza della Cina è in effetti il principale punto debole della strategia – sanzioni internazionali dure, combinate a nuovi accordi militari con le monarchie del Golfo – con cui Obama sta cercando di rispondere al problema iraniano.

L’incontro con il Dalai Lama chiude, simbolicamente, la politica del sorriso di Obama; e segnala – insieme alla vendita di nuove armi a Taiwan – che l’America non è più disponibile a concessioni unilaterali. Il presidente americano sta facendo il percorso inverso dei suoi predecessori. Clinton e Bush avevano entrambi avuto, con la Cina, una fase iniziale di scontro, poi riassorbita da accordi pragmatici. Obama ha cercato subito l’accordo e oggi rischia notevoli frizioni.

Da parte sua – e questo è un secondo punto importante – la leadership cinese ha letto nella crisi finanziaria la prova del declino dell’America. E ha colto nelle aperture iniziali di Obama solo un segno di debolezza. La Cina pensa insomma di avere il tempo dalla sua parte, nei negoziati con Washington. E intanto gioca una carta nazionalista, anche per motivi interni, con una assertività che l’Occidente non si aspettava. Il limite di un approccio del genere è molto chiaro: la Cina rischia un eccesso di fiducia in se stessa. E proprio quando esiste un rischio economico (la bolla degli investimenti) e un rischio politico (la transizione al potere nel 2012).

I rapporti fra Washington e Pechino vivono ormai le incertezze tipiche delle fasi di ascesa e declino delle grandi potenze: fasi storicamente molto delicate, spesso all’origine dei conflitti. E’ quindi essenziale che il tiro alla fune di oggi non sfugga di mano. In un’America già elettorale e con una forte disoccupazione, il rischio vero è il  protezionismo. La Cina lo sa; ma deve anche ricordarselo. Così come deve ricordare – Pechino è insieme a Tokyo il principale investitore esterno in Treasury Bonds americani – che il futuro del dollaro è diventato anche un suo problema.

Il rapporto tra il capitalismo democratico americano e il capitalismo comunista cinese non garantisce certo l’assenza di tensioni, ma per ora le argina.