international analysis and commentary

A not so distant shore: l’Europa vista dagli USA

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Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Germanicus in uscita sul prossimo numero (53) di Aspenia.

Nei primi due anni dell’era Obama i rapporti transatlantici sono stati segnati da un singolare contrappunto. Il primo presidente di colore della storia americana gode, in Europa, di tassi di gradimento che, fossero registrati negli States, farebbero la gioia dei suoi spin doctors. Eppure, media e analisti del vecchio continente sono assaliti con sempre maggiore frequenza da un dubbio: che la passione non sia ricambiata, e che le due sponde dell’Atlantico, in realtà, si stiano progressivamente allontanando[1].

A far suonare il campanello d’allarme, già nel 2010, è stata la travagliata organizzazione del vertice UE-USA, prima cancellato, poi più volte rinviato e, infine, ridotto ad una frettolosa appendice del summit NATO di fine anno.  L’impressione di un’Europa sempre meno rilevante negli equilibri globali, le speculazioni sulla presunta nascita di un G2 sino-americano, l’effettiva riluttanza del presidente Obama a “concedersi” ad incontri bi e multilaterali hanno fatto il resto[2]. Se non siamo ancora alla “sindrome da abbandono”,  poco ci manca.

Eppure, osservando l’agenda internazionale del presidente Obama, sembra difficile affermare che l’Europa sia stata trascurata rispetto ad altre regioni del mondo. Semmai, quello che gli europei percepiscono come un calo di interesse è il riflesso della minore attrattiva che la politica estera in quanto tale, più che la politica transatlantica, ha ultimamente agli occhi dell’amministrazione USA. A tre anni dal crack della Lehman Brothers, la sfida decisiva per il presidente Obama è ancora quella di condurre il paese fuori dalla crisi, creare posti di lavoro, rilanciare la competitività americana.

Ad accentuare questa tendenza al ripiegamento su se stessi potrebbe contribuire anche quello che, finora, è stato il principale successo di immagine dell’amministrazione americana: l’eliminazione di Osama bin Laden. Ora che il “nemico pubblico numero uno” è stato tolto di mezzo, sono in molti a reclamare un ridimensionamento degli impegni americani nel mondo. Obama è riuscito finora a convincere il Congresso e l’opinione pubblica che la politica estera americana del dopo 11 settembre non è stata soltanto una gigantesca posse per catturare il leader di al Qaeda e che molto resta ancora da fare, in Afghanistan e altrove. Ma è indubbio che la morte di bin Laden contribuirà a determinare, nell’opinione pubblica americana, un calo di tensione, e di attenzione, nei confronti del mondo esterno.

Ciò non vuol dire, tuttavia, che il futuro del rapporto transatlantico sia in pericolo. Anche nel contesto di un relativo ridimensionamento dell’impegno americano all’estero la partnership con l’Europa è destinata a rimanere cruciale.

Ecco alcune buone ragioni. La prima è di carattere economico. A dispetto dei cambiamenti in atto a livello globale, l’Europa rimane di gran lunga il principale partner economico degli USA. Non solo dal punto di vista dei flussi commerciali e degli investimenti diretti ma anche dell’integrazione nel campo della corporate governance, della produzione, della ricerca[3]. Molto tempo ancora dovrà passare prima che gli USA raggiungano un grado comparabile di interdipendenza con altre regioni.

La seconda ragione è di natura culturale.  Il “rise of the rest”, l’emergere di nuovi centri di potere in Asia e nel sud del mondo, sta cambiando gli equilibri globali: oltre ad insidiare la preminenza politica ed economica dell’Occidente, sta aprendo una competizione globale di modelli e di idee. Di fronte a questa evoluzione, gli americani si rendono conto che, se vogliono difendere la loro visione del mondo, devono avere l’appoggio di alleati che condividano gli elementi fondamentali del loro creed fatto di libertà individuale, eguaglianza di fronte alla legge, democrazia, universalità dei diritti umani, stato di diritto[4]. Al di là delle differenze di sensibilità, che pure esistono e sono importanti, fra le due sponde dell’Atlantico[5], il primo e più naturale alleato non può che essere l’Europa.

A favore della partnership transatlantica milita infine, e forse soprattutto, l’esigenza statunitense di condividere gli oneri della leadership mondiale. Dopo l’ubriacatura neocon dei primi anni del XXI secolo, le élites americane stanno toccando con mano i limiti della loro potenza[6]. Si stanno confrontando con le difficoltà dell’impresa afghana; con le conseguenze della crisi internazionale; con la percezione di una graduale perdita di competitività; con il timore che il primato statunitense sia ormai insediato da nuovi attori internazionali[7]. Questa congiuntura si traduce in un public mood piuttosto pessimista[8]; ma soprattutto, porta il paese a guardarsi allo specchio, a cercare al suo interno quali possano essere le ragioni della “crisi” e quali le mosse per rilanciare la leadership USA[9].

In questa fase la politica americana tende a semplificare i termini del problema. Messa da parte la necessità di fare investimenti di medio e lungo periodo, ad esempio  nel campo della formazione e della ricerca, si sta concentrando su un obiettivo di carattere immediato: quello di rimettere a posto i conti del paese.

Nelle stanze del potere, e non solo, la parola d’ordine è divenuta fare in modo che gli impegni internazionali degli Stati Uniti siano commisurati alle risorse del paese, secondo la ricetta formulata da Paul Kennedy poco più di venti anni fa[10]. E qui subentra il rapporto transatlantico. Perché per far quadrare il cerchio della leadership e delle risorse, gli USA hanno bisogno degli europei. Solo con il loro aiuto, infatti, possono pensare di continuare ad esercitare un ruolo di indispensable nation senza cadere nella trappola dello imperial overstretch. Tanto più che gli eventi degli ultimi mesi hanno dimostrato che nessun G2 o G20 può rimpiazzare, in questa delicata fase storica, la leadership USA[11].

In mancanza di un nuova “dottrina” dei rapporti transatlantici gli USA si limitano però a scegliere di volta in volta, a seconda delle esigenze, il canale attraverso cui interloquire con  i partners europei. Esiste allora il canale “tradizionale” della NATO, quello “multi-bilaterale” con l’Unione Europea e quello bilaterale, con i singoli stati membri.

Per comprendere l’approccio americano dobbiamo identificare gli obiettivi prioritari da perseguire assieme agli europei, che sembrano essere due.

Il primo grande obiettivo è quello della stabilizzazione regionale o, per utilizzare il linguaggio dell’amministrazione USA “helping to extend stability, security, prosperity and democracy” sul continente[12].

Per contribuire alla stabilità continentale, la NATO dispone di un ventaglio piuttosto ampio di strumenti. La deterrenza e l’intervento nelle situazioni di pre-crisi, crisi conclamata e post crisi, naturalmente, ma anche l’esercizio del cosiddetto soft power. Così, l’organizzazione ha sviluppato negli ultimi anni i contatti con gli altri paesi della regione – quello che il nuovo strategic concept definisce la cooperative security – e soprattutto ha messo a punto una serie di incentivi e disincentivi per incoraggiare gli attori regionali ad adottare comportamenti cooperativi. L’incentivo più importante è stato lo stesso processo di allargamento dell’Alleanza.

Visto da Washington, il “compito” dell’Unione Europea è del tutto speculare. Si tratta di svolgere, con strumenti civili, una funzione di stabilizzazione analoga a quella svolta dalla NATO attraverso lo strumento militare. Per questo i policy planners statunitensi ritengono che Washington e Bruxelles debbano lavorare fianco a fianco su tutti i principali dossier regionali: dalla Bielorussia ai frozen conflicts passando per lo sviluppo di una “eastern partnership” all’interno della politica di vicinato.

La seconda grande area di cooperazione con l’Europa riguarda le “sfide globali”. Tanto lo strategic concept della NATO quanto le conclusioni del vertice UE-USA di Lisbona ne sottolineano l’importanza e gli stessi europei si stanno cominciando a rendere conto che, se vogliono preservare la partnership con gli USA, devono fare in modo che essa divenga globale[13]. 

Per gli USA, la partnership con l’Europa sarà tanto più interessante quanto più riuscirà ad influire sulle cross-cutting issues: l’Afghanistan, l’Iran, la difesa missilistica, la lotta al terrorismo, gli stravolgimenti in Nord Africa, il processo di pace in Medio Oriente, il coordinamento delle politiche economiche e via dicendo. L’obiettivo, in ciascuno di questi campi, è convincere gli Europei a far fronte comune (e a condividere le spese) con gli americani per aiutarli a far fronte alla loro daunting international agenda.     

Su questo sfondo, gli USA non vedono, e non vedranno nel prossimo futuro, l’utilità di creare dei canali esclusivi per trattare con gli europei. Verosimilmente, continueranno a fare cherry picking fra i tre livelli cui abbiamo accennato, a secondo dei temi da trattare di volta in volta. In quest’ottica, le tematiche di sicurezza verranno gestite prevalentemente in ambito NATO o con lo strumento inedito delle “coalizioni dei volenterosi” a guida europea, quelle economiche attraverso il dialogo bilaterale con la UE e con i principali stati membri in ambito G8/G20 e le questioni di politica estera attraverso il duplice canale stati membri/istituzioni europee. A ben vedere, una “geometria variabile” che ricalca sostanzialmente la struttura delle competenze dell’Unione: poco integrata e quasi completamente intergovernativa nel settore della difesa e della sicurezza comune, molto avanzata sotto il profilo della integrazione economia e ancora “a metà del guado” nel campo della politica estera.

Per rivitalizzare il rapporto con l’Europa, gli Stati Uniti dovranno comunque cominciare a ragionare in termini di trade offs fra i diversi obiettivi perseguibili, senza illudersi di poterli centrare tutti simultaneamente.

Il primo trade off su cui dovranno cercare un equilibrio è quello fra burden sharing e leadership. Per abitudine, riflesso condizionato o opportunismo, gli europei continuano a chiedere agli USA di garantire (e pagare per) la loro sicurezza. Per debolezza, ossequio e scarsa coesione, offrono in cambio di sostenere i loro impegni nel mondo accontentandosi, quando va bene, di essere consultati sulla loro pianificazione e conduzione.

Sotto la pressione dei vincoli di bilancio, gli americani vorrebbero cambiare uno dei termini dello scambio, promuovendo una ripartizione più equa dei costi della sicurezza collettiva. Ma la richiesta difficilmente sortirà effetti eclatanti fino a quando non si rivisiteranno entrambi i termini del do ut des transatlantico.

Una reale ridistribuzione degli oneri potrà avvenire soltanto nel contesto di una ridistribuzione delle responsabilità. Il che richiede qualche rinuncia da parte degli americani in termini di leadership e una maggiore influenza dell’Europa nella definizione dell’agenda comune. Un’Europa co leader dell’alleanza potrebbe fornire agli USA quel sostegno che tanti junior partners non riescono a dare. Sarebbe probabilmente meno malleabile e più assertiva, ma anche più utile e meno dipendente. L’amministrazione Obama sembra averlo capito.

Il passaggio verso un nuovo paradigma nei rapporti transatlantici va però gestito con grande cautela. Il caso Libia dimostra che, se gli USA rinunciano troppo rapidamente ad esercitare la loro leadership, rischiano di scatenare una gara senza esclusioni di colpi fra gli europei per determinare chi debba occupare gli spazi lasciati aperti. Per evitare questi contraccolpi, il graduale disimpegno degli Stati Uniti dovrebbe essere accompagnato da un parallelo rafforzamento della politica di difesa europea.

C’è poi un secondo, e forse persino più complesso, bilanciamento che gli americani saranno chiamati ad effettuare nei prossimi anni: quello fra la massimizzazione dell’interesse di breve periodo e l’interesse di lungo periodo. Nel breve periodo, è chiaro che gli Stati Uniti possono ottenere maggiori vantaggi trattando con gli stati membri in ordine sparso piuttosto che con l’Unione in quanto tale. E, sempre nel breve periodo, è possibile che in alcuni circoli finanziari statunitensi si ritenga tutto sommato auspicabile un indebolimento dell’Unione Economica e Monetaria e della sua moneta. Nel lungo periodo, però, la rinazionalizzazione della politica europea sarebbe catastrofica anche per gli USA.

Non si tratta di chiedere agli americani di essere “più europeisti degli europei”. Si tratta piuttosto di auspicare che agiscano sulla base di un calcolo razionale.


[1] A Crisis in Trans-Atlantic Relations – Why Obama is ignoring Europe, Spiegel Online, 9 febbraio 2010

[2] Markus Walker, EU sees dreams of power wane as “G-2” rises, Wall Street Journal, 26 gennaio 2010; Philip Stephens, “Europe daydreams its way to Japanese irrelevance”, Financial Times, 10 settembre 2010

[3] J. Shapiro, N. Witney, Towards a Post-American Europe: A Power Audit of EU-US Relations, European Council on Foreign Relations, ECFR.EU

[4] A. M. Schlesinger Jr, The Disuniting of America, W.W. Norton & Co, New York, 1998

[5] L’eliminazione di Osama bin Laden ha offerto un interessante spaccato  di questa differenza di sensibilità. Al di là delle considerazioni di diritto internazionale – se l’uccisione di Osama bin Laden possa essere assimilata o meno ad un atto di guerra – è difficile immaginare forze speciali europee impegnate in un “raid” come quello di Abbotabad.  E ancora più difficile è immaginare che piazze europee  si possano riempire di folle festanti per l’eliminazione di un pericoloso terrorista. (Germanicus, La notte magica del Commander in Chief, Aspenia Online 9/5/2011)

[6] M. Mandelbaum, The frugal superpower: America’s Global Leadership in a Cash-strapped Era, Public Affairs, 2010

[7] F. Zakaria, The Post Amercan World, Norton, New York, 2009

[8] J. S. Nye, Jr, The Future of American Power, Foreign Affairs, November/December 2010, volume 89, number 6

[9] F. Zakaria, How to restore the American Dream, Time Online, 21/10/2010, www.time.com

[10] P. Kennedy, The Rise and Fall o f Great Powers, Random House, NY, 1987

[11] I. Bremmer e N. Roubini, A G-Zero World, Foreign Affairs, marzo/aprile 2011

[12] P. Gordon, Audizione…cit

[13] Nel linguaggio del draft discussion paper sul futuro della Politica Estera europea distribuito agli Stati membri dall’Alto Rappresentante Ashton: “partnership has to go global”.