USA-Iran: massima pressione, obiettivi vaghi, rischio crescente

 Il 21 giugno il processo di escalation (anche) militare tra Stati Uniti e Iran ha raggiunto un punto critico, seppure non irreversibile: lo si è visto dal mancato “strike” aereo a fini di rappresaglia per l’abbattimento del drone americano alcuni giorni prima. Un non-evento di cui abbiamo appreso dallo stesso Presidente Trump. Purtroppo, in questo caso anche un mancato uso della forza accresce i dubbi sulla capacità dell’amministrazione Trump di gestire in futuro un dossier così delicato.

Il consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, il Segretario di Stato Mike Pompeo e Donald Trump

 

La decisione di interrompere una missione militare punitiva che, a quanto è stato rivelato, era pianificata in dettaglio e pronta ad essere avviata, è un vero concentrato del “metodo Trump”. Anzitutto, come d’abitudine tale decisione è stata comunicata con un tweet, portando con sé tutti i limiti intrinseci della “Twitter diplomacy”: oltre a semplificare il messaggio in modo estremo, questa forma di comunicazione politica da parte del Presidente degli Stati Uniti sembra incoraggiare il ricorso alle esternazioni immediate e dunque non concordate con le varie agenzie governative. In sostanza, vengono così eliminati quei filtri tecnici e burocratici che costituiscono un argine almeno parziale alle scelte istintive e personali.

In secondo luogo, la vicenda conferma una volta di più la propensione di Donald Trump a ribadire senza imbarazzi la superiorità del suo ruolo decisionale rispetto agli altri membri della sua amministrazione – cosa ovviamente superflua per qualsiasi Presidente che faccia reale affidamento sui meccanismi istituzionali. Rivendicando la propria responsabilità nella decisione ultima sull’adeguatezza dello strumento che era stato messo a punto dai militari – un’operazione presumibilmente “chirurgica” ma certo non solo simbolica, e dunque a rischio di danni collaterali – il Presidente ha in parte sconfessato i suoi consiglieri a tutti i livelli. E ciò non è spesso di grande beneficio in campo internazionale, visto che quegli stessi consiglieri dovranno magari un giorno condurre negoziati tecnici o comunque interagire con controparti straniere. In altre parole, come è già accaduto a questa amministrazione, focalizzare l’attenzione solo sul Comandante in Capo significa ridurre la capacità collettiva del governo di fare politica estera: le diplomazie non possono contare sul team di Trump se quel team viene in maniera sistematica esautorato e sconfessato.

Perfino le valutazioni di merito sulla questione, cioè il fatto che probabilmente è stato opportuno astenersi da un’azione militare in questa fase, passano in secondo piano a fronte dell’ormai nota idiosincrasia della Casa Bianca – per cui tutto finisce per essere ricondotto alla personalità del Presidente. E’ il prezzo che si paga quando non si appronta un metodo di lavoro razionale e prevedibile, confidando invece nelle qualità taumaturgiche del Comandante in Capo. Nei momenti di crisi acuta e di alto rischio su questioni di sicurezza nazionale, è chiaro che un processo decisionale rigoroso diventa essenziale per evitare di aumentare i rischi invece di gestirli al meglio possibile. Il tweet sull’operazione abortita contro obiettivi iraniani è la più recente punta dell’iceberg di questo problema che resta sommerso appena sotto il pelo dell’acqua.

Non è un caso, del resto, che tre importanti figure di ex-militari (abituati proprio a rispettare procedure piuttosto precise, senza per questo mancare di immaginazione come ci ricorda l’anniversario del D-Day) abbiano dal 2017 lasciato alcune posizioni-chiave dell’amministrazione: James Mattis come capo del Pentagono, H.R. McMaster come National Security Advisor, e John Kelly come capo della Homeland Security e poi Chief of Staff alla Casa Bianca – ai quali si può aggiungere anche Michael Flynn, che fu subito eliminato per i suoi rapporti con la Russia.

Personaggi del genere erano quantomeno in grado di garantire un collegamento tra gli obiettivi fissati dalla Casa Bianca e gli strumenti, politici e militari, a disposizione degli Stati Uniti nel mondo. Coloro che li hanno sostituiti appaiono francamente meno esperti e comunque assai meno capaci di influire sulle decisioni del loro capo.

Naturalmente, quello del 21 giugno è stato soltanto un episodio in un contesto che rimane molto pericoloso. Appena pochi giorni più tardi sono infatti state imposte da Washington altre sanzioni contro alcuni membri della leadership militare iraniana, ma soprattutto contro la “Guida Suprema”, l’Ayatollah Ali Khamenei. Sono stati anche menzionate alcune azioni americane di cyber war in corso o in preparazione. Le nuove misure vengono presentate come una “risposta proporzionata alle azioni sempre più provocatorie dell’Iran” e si è preannunciato un ulteriore inasprimento. C’è quindi il chiaro intento di proseguire sulla strada di questa escalation, seppure con strumenti principalmente economici e informatici invece che militari classici. Come è ben noto, le tensioni regionali sono comunque tali da creare il potenziale per incidenti tra forze armate, sia di tipo marittimo nel Golfo Persico sia di tipo aereo nei cieli iraniani. Circostanza ammessa in pratica dallo stesso Presidente americano, che ha infatti minacciato il 25 giugno la “obliterazione” di alcune forze iraniane in caso di attacchi diretti a forze americane.

Si deve ricordare che lo strangolamento economico non è percepito a Teheran come una sorta di limitato esercizio di “soft power”… perché non lo è; si tratta piuttosto una forma di guerra con strumenti non militari, e come tale è apertamente utilizzata dall’amministrazione Trump. Se la visione delle opzioni disponibili non fosse abbastanza chiarita dal recente inasprimento delle sanzioni, il National Security Advisor, John Bolton, ha così precisato (durante una visita in Israele): “The president has held the door open to real negotiations that completely and verifiably end Iran’s nuclear weapons program, its pursuit of ballistic missile delivery systems and support for international terrorism and its other malign behavior world-wide. All that Iran needs to do is walk through that open door”. Da notare la formulazione che si può tradurre approssimativamente “comportamento maligno a livello mondiale”: un’espressione, di per sé soggettiva e dunque arbitraria, che compensa in ampiezza ciò che non possiede in precisione.

In sostanza, allo stato attuale possiamo dire che Washington ha rinunciato all’accordo nucleare del 2015 (il JCPOA, certo limitato ma utile) per avere massima libertà di manovra, e segnalare a Teheran che il nodo da scogliere è l’intero spettro della politica estera iraniana; ma il risultato è finora che la tensione è salita moltissimo senza alcun vero vantaggio strategico per gli Stati Uniti. Dalla prospettiva peculiare dell’amministrazione Trump la porta dei negoziati è davvero sempre aperta, quasi senza condizioni, ma solo nel senso che la capitolazione del regime di Teheran sarebbe l’oggetto stesso delle eventuali trattative. Una vera precondizione quindi esiste eccome, ma non è esplicitata: è la disponibilità iraniana a rimettere in discussione tutti i propri obiettivi, simultaneamente.

Intanto, la pressione su vari fronti produce tangibili rischi militari. Non si può negare che siamo di fronte a una diplomazia “creativa”. Vedremo ora quanto saranno, a loro volta, creativi gli iraniani nel fare le loro prossime mosse. E speriamo soprattutto di essere fortunati nell’evitare errori di calcolo da una delle due parti. 

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