Un’integrazione europea selettiva per governare la globalizzazione

[L’articolo di Marta Dassù sulla relazione tra democrazia, stato-nazione e globalizzazione]

[La risposta di Paolo Savona]

[Il commento di Riccardo Perissich]

 

In un recente articolo (La Stampa, 10 settembre) Marta Dassù evidenzia come l’Europa non riesca più a tenere insieme globalizzazione, democrazia e stato-nazione. Ci ricorda che l’economista turco-americano Dani Rodrik aveva evidenziato diversi anni fa questo “trilemma”, concludendo che solo due dei tre elementi possono stare insieme.

Sul tema è ritornato lo stesso Rodrik, sul New York Times il 18 settembre scorso. La globalizzazione – si afferma – deve essere salvata: sia dai suoi detrattori, i tanti Donald Trump all’orizzonte; sia dai suoi sostenitori, che hanno finito per plasmare le società a beneficio della globalizzazione e non viceversa.

La declinazione europea della globalizzazione è l’integrazione. L’Europa si trova oggi nella situazione in cui la gran parte dei cittadini pensa che si sia spinto troppo l’acceleratore dell’integrazione europea; per questo inizia a rifiutare tutto ciò che richiama anche solo vagamente concetti come solidarietà, trasferimento di poteri e sovranità, collaborazione internazionale, regole di convivenza in un’economia globalizzata.

Ci sono almeno tre esempi recenti che mostrano tale avversione. Il primo è ovviamente il voto inglese sull’uscita dall’Unione Europea: l’immigrazione dai paesi comunitari – Romania e Bulgaria in primo luogo – ha fatto esplodere il malcontento verso l’Europa che covava da anni e spinto i cittadini a richiedere un ruolo maggiore allo stato-nazione a discapito dell’integrazione. Come se il Regno Unito fosse ancora un impero!

Il secondo esempio è il dibattito sul TTIP, l’accordo transatlantico sul commercio che avrebbe dovuto creare un mercato unico tra Stati Uniti ed Europa. Piuttosto che focalizzarsi  sui possibili benefici, e su come limitare magari gli eccessi di deregolamentazione, la discussione è stata monopolizzata dalla paura dell’invasione dei prodotti americani – soprattutto alimentari – nei mercati europei. Arrivando a ignorare dei fatti fondamentali per inquadrare il problema, ad esempio che la Cina è di gran lunga il più importante esportatore al mondo di mele, consumate in gran quantità anche in Europa. Per quale motivo le mele cinesi, che non suscitano proteste, sono più accettabili di quelle americane?

Il terzo esempio è l’approccio che l’Europa ha tenuto sulla tragedia dei migranti e dei rifugiati, prima quelli che arrivavano a Lampedusa dall’Africa e poi quelli che scappavano dalla Siria attraverso la Grecia e i Balcani. In entrambi i casi è mancata la capacità di gestire le emergenze con un approccio veramente europeo e si è iniziato a mettere in discussione addirittura la libera circolazione delle persone, uno dei cardini dell’Unione.

In qualche modo, la soluzione al trilemma europeo – come tenere insieme democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione – è stato risolto a discapito di quest’ultima. E i movimenti politici che sono sorti recentemente e si sono affermati in gran parte dell’Europa hanno sostenuto questa soluzione, essendo premiati dai cittadini.

Il ritorno allo stato-nazione per salvaguardare le conquiste europee sembra allora la soluzione. I cittadini europei, attraverso il voto democratico, possono certamente decidere di riaffermare il ruolo dei singoli stati, ma sarebbe una scelta poco lungimirante.

Gli ultimi vent’anni hanno visto l’innalzamento del tenore di vita di centinaia di milioni di persone (in larghissima misura nelle economie “emergenti”) che prima erano escluse non solo dal benessere ma da un livello di vita almeno decente, la riduzione delle barriere commerciali anche grazie all’e-commerce, il miglioramento delle vie di comunicazione (materiali e immateriali) che ha favorito lo spostamento di persone e di idee. Difficile immaginare un ritorno al passato. La questione è allora se la gestione delle complessità derivanti dalla globalizzazione si possa affrontare più efficacemente con una Europa divisa oppure attraverso maggiore integrazione.

La sensazione che si ha dal lato americano dell’Atlantico  è che il mondo sia diventato troppo grande per pensare che un singolo stato dell’Unione Europea – fosse anche la Germania – può veramente avere un peso nelle decisioni internazionali senza essere supportato dagli altri paesi europei. Questo vale anche e soprattutto per l’Italia, che ha un peso economico ormai inferiore al 3% della ricchezza mondiale prodotta ogni anno. Davvero pensiamo che con il nostro “due virgola qualcosa per cento” possiamo stabilire regole, gestire conflitti e imporre idee?

Si tratta allora di governare, e non respingere, la globalizzazione. Messa in soffitta l’Europa a due velocità, bisogna costruire l’Europa a cerchi concentrici. L’idea delle “due velocità” era che, prima o poi, tutta l’Unione Europea avrebbe aderito all’euro come completamento del processo cominciato con il mercato unico e poi proseguito con Schengen. È ormai di tutta evidenza che questo non avverrà, ma ciò non significa che bisogna rinunciare alla maggiore integrazione europea, unico modo per avere un ruolo nel governo della globalizzazione.

L’integrazione può avvenire allora per cerchi concentrici, con un nucleo e una periferia. Il nucleo dovrebbe essere almeno composto dai grandi paesi fondatori –  Germania, Francia e Italia – e prevedere un’ulteriore condivisione delle politiche fiscali e sociali. Penso a un’autorità fiscale comune, all’emissione di titoli di stato finalizzati a finanziare capitale umano, innovazione e infrastrutture, a strumenti di sostegno al reddito mutualizzati, a una difesa comune. Un nucleo così integrato sarebbe non solo in grado di gestire meglio gli shock interni all’area ma anche di orientare la globalizzazione.

La periferia, o meglio il cerchio esterno dell’Europa, continuerebbe a condividere con il nucleo il mercato interno e la libera circolazione di merci e persone. L’euro continuerebbe a essere la moneta dei paesi che già l’hanno adottato, anche se una trasformazione come quella descritta potrebbe determinare qualche altra uscita dall’Unione e dallo stesso euro, senza per questo diventare una tragedia.

Tutto ciò richiede leader coraggiosi e visionari, che siano in grado di fornire ai cittadini europei un percorso: con risultati nel breve periodo che favoriscano la creazione di consenso, e con un progetto di lungo periodo. La complessità di questo processo è enorme e le spinte attuali vanno nella direzione opposta. Ma il ritorno agli stati-nazione in Europa ci renderebbe piccoli e insignificanti.