L’incertezza regna sovrana sulle elezioni di medio termine che si terranno negli Stati Uniti a novembre e da cui potrebbe scaturire davvero qualsiasi risultato. A oggi i Democratici detengono la maggioranza al Senato, contando su 55 senatori (di cui due indipendenti) contro i 45 dei Repubblicani. Alla Camera la situazione è ribaltata, con 234 Repubblicani e 201 Democratici. Dati i pochi seggi che separano i due schieramenti, uno scenario possibile è addirittura quello di un contemporaneo cambio di maggioranza in entrambi i rami del parlamento, con i Repubblicani che conquistano il Senato e i Democratici la Camera. Si tratterebbe di un evento epocale, mai accaduto prima.
Al partito del Presidente Barack Obama basterebbero 17 seggi per riprendersi la maggioranza della Camera, persa nel 2010. E sono proprio 17 i deputati repubblicani provenienti da distretti che nel 2012 votarono per Obama alle presidenziali, distretti considerati quindi particolarmente competitivi. Ve ne sono inoltre altri 43 dove l’avversario del presidente, Mitt Romney, si impose con un margine percentuale inferiore a cinque punti.
Al Senato, invece, saranno 35 i seggi in palio, 21 dei quali occupati da Democratici e 14 da Repubblicani. Qui la tendenza sembrerebbe favorire l’opposizione poiché sette dei senatori democratici uscenti vengono da stati conquistati da Romney nel 2012, a fronte di un unico seggio repubblicano in palio che è espressione di uno stato che fu appannaggio di Obama in quell’ultima tornata elettorale.
Ci sono però due variabili che lavorano contro i piani di vittoria dei Democratici alla Camera e dei Repubblicani al Senato – entrambi legati a dinamiche interne al Grand Old Party (GOP).
La prima variabile è il radicamento dei deputati repubblicani sul territorio, la loro popolarità tra i propri elettori, che invece percepiscono un certo distacco dall’establishment di Washington nel suo complesso. Infatti, nonostante dati Gallup del novembre 2013 rivelino che il Partito repubblicano ha perso complessivamente quasi dieci punti di consenso a livello nazionale – soprattutto a seguito della scelta di provocare la temporanea chiusura del governo federale – i singoli deputati non sembrano aver subito un danno politico. Un fatto che conferma i dati del 2012: nei 43 distretti elettorali vinti da Romney con meno di cinque punti di margine su Obama, tutti i Repubblicani in corsa per il Congresso hanno fatto meglio del candidato presidenziale, talvolta distaccando i rivali democratici di oltre dieci punti percentuali.
Questo elemento di forza dei Repubblicani è però messo a repentaglio dall’azione degli ultra-conservatori del Tea Party, il cui impegno nelle primarie rischia di far deragliare le candidature degli esponenti moderati del partito, considerati più “eleggibili” al momento del voto generale. Ed è proprio questa la seconda variabile da tenere in considerazione, giacché mette in dubbio l’abilità dei Repubblicani di riconquistare il Senato e fa aumentare le chances democratiche alla Camera. Il rischio per il GOP è che si ripeta su larga scala quel che successe in Indiana nelle primarie del 2012 per il Senato, dove il Tea Party diede fondo a tutte le proprie risorse per estromettere Richard Lugar, Repubblicano centrista e sei volte senatore. L’ultraconservatore Richard Mourdock ebbe così la meglio su Lugar, ma fu poi sconfitto all’elezione generale da Joe Donnelly, primo Democratico eletto al Senato in Indiana in oltre vent’anni.
Proprio al Senato saranno almeno otto gli incumbent repubblicani che dovranno vedersela con colleghi di partito nelle primarie. In Kentucky, Mitch McConnell, leader di opposizione in Senato, dovrà vedersela con Matt Bevin, il quale ha già iniziato una pesante campagna di spot elettorali che attaccano l’avversario democratico. In Mississippi, il 76enne Thad Cochran, in carica da trentacinque anni, è chiamato a difendere il proprio seggio dagli assalti del 41enne Chris McDaniel, giovane e aggressivo rivale del Tea Party. La sfida di McDaniel è tra le più interessanti poiché al momento questo è l’unico candidato senatoriale a essere appoggiato dal Club for Growth, una munifica organizzazione conservatrice che finanzia generosamente le campagne elettorali dei rappresentanti della destra. In Tennessee, il 73enne Lamar Alexander ha ricevuto lo scorso agosto una pubblica lettera d’accusa firmata dai venti club statali del Tea Party, in cui veniva accusato di bipartisanship e di “tradimento dei valori conservatori” e in cui veniva invitato a ritirarsi. Alexander si trova ora ad affrontare il deputato statale ultra-conservatore Joe Carr.
Vi sono poi due senatori dall’innegabile pedigree conservatore che sono stati sfidati da rivali ancora più a destra di loro. La loro colpa è quella di aver votato lo scorso autunno a favore della misura che ha interrotto i sedici giorni di shutdown, salvando gli Stati Uniti dal rischio di default finanziario. In Texas, John Cornyn si trova ad affrontare Steve Stockman, membro del Tea Party e noto a livello nazionale per aver chiesto l’impeachment di Obama e l’uscita degli Stati Uniti dall’ONU. L’opposizione del Tea Party a Cornyn ha dell’incredibile: appena nel 2012 il National Journal aveva definito Cornyn il “secondo senatore più conservatore d’America”. L’altro obiettivo degli ultra-conservatori è il seggio del Kansas del settantasettenne Pat Roberts, in Senato dal 1996. Roberts sarà sfidato dal fisico Milton Wolf, che ha ricevuto l’endorsement del Senate Conservatives Fund, una tra le più attive e ricche organizzazioni conservatrici, fondata nel 2008 da Jim DeMint, ex senatore del South Carolina e uno deileader indiscussi della destra repubblicana. L’azione del Senate Conservatives Fund è da tenere d’occhio poiché finora ha scelto di sostenere poche ma mirate elezioni locali. Nel 2010 finanziò Rand Paul in Kentucky, nel 2012 Ted Cruz in Texas. Scommesse entrambe vinte. Quest’anno ha già destinato quattro milioni di dollari a Wolf, McDaniel e Bevin. Infine, un esempio di come l’establishment si stia riprendendo dopo le tante sconfitte subite dal Tea Party negli ultimi quattro anni va ritrovato in Wyoming. Mike Enzi, politico beneamato nello Stato e in Senato dal 1996, era stato inizialmente sfidato da Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente. Sebbene non ufficialmente iscritta, la Cheney era anch’essa appoggiata dal Tea Party e disponeva di un cospicuo budget per la campagna elettorale. A inizio gennaio, però, ufficialmente per motivi di famiglia ma probabilmente anche per via della grande pressione fatta su di lei dal partito, che temeva che l’ennesima lotta fratricida avrebbe solo avvantaggiato i Democratici nelle elezioni generali, Cheney ha improvvisamente e inaspettatamente annunciato il proprio ritiro.
Per quanto riguarda la Camera, sono due le corse dal maggior contenuto simbolico. La prima è quella del secondo distretto dell’Idaho, un territorio apparentemente marginale ma che rappresenta bene lo scontro in atto tra l’establishment repubblicano e il Tea Party. Mike Simpson, molto vicino allo speaker della Camera John Boehner e giunto al suo ottavo mandato consecutivo, dovrà fronteggiare Bryan Smith e il fuoco di fila del Club for Growth che lo ha accusato di essere “troppo liberal”. La campagna elettorale per le primarie del 20 maggio è molto accesa ed entrambi gli schieramenti stanno investendo parecchio denaro. Boehner è già volato due volte in Idaho per appoggiare Simpson, mentre Smith ha dato il via a una forte offensiva mediatica. La buona notizia per i Repubblicani è che questo scontro fratricida non dovrebbe mettere a rischio l’elezione generale, poiché il seggio è considerato safe Republican.
Nell’undicesimo distretto del Michigan il rapporto di forza è invece invertito e il conservatore Kerry Bentivolio si troverà ad affrontare il beniamino del partito nazionale David Trott. Amato dagli agricoltori e dagli elettori delle zone rurali, Bentivolio rappresenta un variegato distretto che abbraccia zone urbane impoverite di Detroit, aree agricole extraurbane e una piccola enclave liberal. Il suo rivale Trott è un ricco avvocato moderato, benvoluto negli ambienti economici cittadini e certamente più pericoloso per gli avversari democratici in vista di un’elezione congressuale da considerarsi incerta.
In ogni caso, non c’è dubbio che le dinamiche interne al GOP e il continuo scontro tra l’establishment e il Tea Party avranno un impatto decisivo sul risultato del voto di midterm 2014, come per altro già avvenuto nel 2010 e nel 2012. Si tratta di vedere, quest’anno, se i rappresentanti del partito nazionale riusciranno finalmente ad andare al contrattacco dopo anni passati in difesa, e se sapranno ridimensionare la destra ultra-conservatrice che da qualche tempo da segni di stanchezza.