E’ raro trovare un vero “vincitore” di un litigio risolto con la violenza. Nel mondo le soluzioni basate sull’imposizione di una specifica volontà mediante l’uso della forza stanno tornando popolari tra classi dirigenti evidentemente a corto di idee, affascinate invece da concetti brutali e sbrigativi come annessioni, invasioni, deportazioni: soluzioni che comportano la rapida cancellazione dell’interlocutore, dell’altro, e con lui, del “problema”. Ma lo stesso concetto vale anche per le guerre. Noi italiani dovremmo saperlo bene: la vittoria che ancora oggi festeggiamo, quella del 1918, produsse un tale shock da precipitarci in una tragica dittatura. E quella del 1936 sull’Etiopia illuse il Paese di essersi trasformato in una potenza imperialista, ma fu decisiva nello spingerci tra le braccia di Hitler nel successivo conflitto mondiale. Questa, almeno, non la festeggiamo.
Il triste anniversario dei tre anni di invasione russa dell’Ucraina ci conferma che è difficile eccepire a questa regola. Se guardiamo ai protagonisti del conflitto con implicazioni di scala planetaria che si è aperto il 24 febbraio 2022, non possiamo davvero trovare chi possa dirsi soddisfatto del risultato. A cantare vittoria saranno in molti: ma qualcuno davvero contento potrà trovarsi – forse – solo tra chi non ha partecipato.
L’elastico ucraino
L’Ucraina ha evitato la capitolazione dopo che l’invasione russa aveva mirato direttamente alla sua capitale nei primissimi giorni dell’attacco. Nella difesa del suo territorio dall’aggressione decisa a Mosca è nata la nazione, cioè la comunanza di interessi e sentimenti di una data collettività, che l’Ucraina nella sua forma post-sovietica non era mai stata nel suo insieme. La sua resistenza militare e civile ha legittimato quell’autodeterminazione che l’invasione russa ha voluto invece appunto stritolare sul nascere: l’ancoraggio definitivo dell’Ucraina all’Occidente è anche una decisione degli ucraini. E ciò rende l’Ucraina uno stato pienamente europeo. Non è casuale che l’autodeterminazione degli ucraini sia ignorata da chi in Russia ne pretende appunto la semplice sottomissione a Mosca, e ridicolizzata, come se un Paese che contava 40 milioni di abitanti potesse davvero considerarsi un burattino della NATO, da chi in Occidente è d’accordo a cancellare con un frego ogni infrazione alla legge del dominio del più forte.
Tuttavia gli ucraini hanno pagato l’esercizio della propria volontà con circa mezzo milione tra morti e feriti, la fuga all’estero di altri milioni di cittadini, e la distruzione delle più importanti infrastrutture del territorio, dalle scuole agli ospedali alla rete energetica al tessuto industriale. Il bilancio statale di Kiev dipende ormai per un terzo dai contributi esteri – e nessuno sa quanto dureranno. Per inciso, quel Paese ha vissuto ben altre catastrofi, nella sua storia: i morti ucraini furono circa 7 milioni durante la Seconda guerra mondiale, e solo dieci anni prima la collettivizzazione dell’agricoltura imposta da Stalin era costata alla Repubblica Sovietica d’Ucraina altre 3 milioni di vittime.
Ma la situazione attuale è comunque molto grave: agenti del governo braccano per le strade i giovani che si rifiutano di mettersi la divisa, il morale continua a peggiorare data la mancanza di buone notizie dal fronte, dove le truppe russe avanzano lentamente ma stabilmente da tempo. Il Paese non è più unito attorno a Zelensky e allo stato maggiore dell’esercito. E nessuno in Occidente è più convinto che l’Ucraina possa ribaltare quest’inerzia.
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Da questo punto di vista, si è assistito a una specie di “elastico” relazionale: per un periodo, la crescita del nazionalismo ucraino ha convinto l’Occidente nel sostegno prima economico-politico, e poi militare a Kiev. Fu a Bucarest nel 2008 che George W. Bush offrì a Kiev la prospettiva dell’ingresso nell’Alleanza Atlantica, persuadendo con difficoltà gli europei; nel 2017 Donald Trump offrì invece quelle armi che Barack Obama negli anni precedenti si era sempre rifiutato di concedere, considerandolo “pericoloso”. Si trattò dei famosi Javelin contro cui si infransero i russi nella fase iniziale dell’invasione. In quei drammatici mesi furono invece proprio gli stati dell’Occidente, a cominciare dal Regno Unito di Boris Johnson, a incoraggiare l’Ucraina sulla strada della continuazione della guerra, perché convinti che con le armi e con le sanzioni la Russia sarebbe presto crollata. Tre anni dopo, l’elastico si è rotto, e la Casa Bianca appare pronta a trattare in esclusiva con Putin la spartizione del Paese e delle sue risorse – offrendo così alla scelta dell’aggressore non solo la legittimazione che finora le aveva rifiutato, ma anche la patente del successo.
Il paradosso russo
Perché l’invasione dell’Ucraina, per la Russia, è stata tutt’altro che un successo. E’ vero che il Paese ha potuto contare su una capacità di resistenza e adattamento che non era stata prevista: le sanzioni sono state aggirate, e per quanto abbiano influito sulla capacità produttiva russa, bene o male il Cremlino è riuscito a metterci una pezza. Né l’esclusione dal sistema internazionale di pagamenti SWIFT ha provocato l’annunciato tracollo finanziario. E nemmeno lo ha fatto la drastica riduzione negli idrocarburi venduti all’Europa. Infine, Putin è riuscito a mantenere il grosso della società russa fuori dal conflitto, inviando al fronte avventurieri, detenuti, minoranze, emarginati, ma evitando una chiamata alle armi generalizzata che avrebbe minato il consenso del regime.
Eppure, questo quadro era in tutti i casi in via di peggioramento. La Russia sta esaurendo le armi accumulate nei depositi nell’ultimo mezzo secolo, che finora hanno costituito il grosso dell’arsenale che ha impiegato. Finite quelle, il suo sistema industriale non sarebbe in grado di produrne altre alla velocità richiesta dalla guerra – i droni ricevuti dall’Iran e le munizioni dalla Corea del Nord, in questo senso, hanno regalato a Mosca un surplus di resistenza fondamentale. Le forniture di gas e petrolio all’Europa sono state sì sostituite da vendite in Asia, ma a prezzi e condizioni peggiori: nel 2024 il bilancio di Gazprom è andato in rosso per la prima volta da vent’anni. Infine, se il conflitto si prolungasse, non ci sarebbe altra scelta per il Cremlino che chiamare alle armi altre classi di giovani, col risultato, oltre che di aumentare lo scontento nel Paese, anche di comprometterne il futuro economico e demografico.
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Tre anni di guerra sono infatti costati moltissimo alla Russia – e non solo per le centinaia di migliaia tra morti e feriti che il Cremlino ha preteso dal suo Paese per “sedersi al tavolo della pace”. Tra le frasi preferite di Putin c’è che “il crollo dell’Unione Sovietica è stata una catastrofe geopolitica”, ma anche la sua invasione non ha scherzato. A Ovest, con l’Europa si sono rotti fiorenti rapporti politici ed economici; e insieme al gasdotto Nord Stream nelle acque del Baltico è saltata un’irripetibile connessione col cuore del sistema produttivo continentale. L’invasione ha spinto l’Unione Europea sulla strada del riarmo, e ha portato due ex campioni della neutralità come Svezia e Finlandia dentro la NATO – intensificando dunque quello che la narrativa del Cremlino additava come “accerchiamento”, e causa della guerra: la distanza tra Helsinki e San Pietroburgo è di 490 km, mentre sono 750 quelli che separano Kiev e Mosca. A rigor di logica, le saune finlandesi dovrebbero riempirsi di soldati russi. Comunque la si pensi, la crescita nelle gerarchie europee di Polonia, Baltici e Scandinavi non rende semplice un’inversione di tendenza, e il ritorno alle serene relazioni pre-invasione.
A Est, Mosca ha finito per ritrovarsi estremamente dipendente dall’aiuto economico e logistico di Pechino. Se non vendesse il gas alla Cina, infatti, non avrebbe altri clienti o quasi. E senza Cina, i soldati russi dovrebbero sparare con la fionda: vengono da lì il 70% dei macchinari e il 90% dei componenti elettronici che impiegano. Le importazioni dalla Cina sono quasi raddoppiate in pochi mesi dopo l’invasione, tanto che i depositi russi si sono intasati di container, come i caselli delle autostrade il primo giorno di agosto.
Il labirinto americano
Oltre a sottolineare le interdipendenze di un mondo i cui leader, invece, si affannano ad affermare di potercela fare da soli, l’efficacia del sostegno cinese alla Russia evidenzia ancor più crudelmente il fallimento di quello occidentale all’Ucraina. In particolare l’apparato bellico americano si è ritrovato incapace di produrre armi e munizioni per la necessità di una guerra che dal punto di vista dei combattimenti, per di più, ha interessato territori tutto sommato limitati. Nel febbraio 2022 negli USA si producevano 14mila granate al mese; due anni dopo, con miliardi di dollari di investimenti, la cifra è arrivata a 40mila. Peccato che agli ucraini ne servissero 30mila al giorno.
Il prodotto interno lordo della Russia equivale al 7% di quello degli Stati Uniti. Osservando questo dato, si aprono per Washington (e per l’Europa) una serie di interrogativi inquietanti. Partendo dalla correttezza del PIL come strumento di misurazione dell’effettiva salute economica di un Paese, su cui è lecito avere i più profondi dubbi, forse la domanda più complessa e urticante investe la capacità dell’Occidente e degli Stati Uniti di valutare correttamente la propria forza e la propria debolezza, e quelle degli altri.
I primi passi della nuova amministrazione non sono molto incoraggianti da questo punto di vista. Donald Trump e Elon Musk – il cui ruolo di plenipotenziario della Casa Bianca, tra l’altro, non è passato da nessuna sanzione elettorale – trascorrono le settimane iniziali del loro mandato a picchiare duro soprattutto sugli alleati più stretti. Il Canada e il Regno Unito, trattati come province tributarie di cui il sovrano decide a capriccio confini e governatori. La Danimarca, che sforna segretari della NATO e ospita la sede europea della National Security Agency (l’agenzia del governo americano che ha spiato per anni importanti personalità europee), ricattata per cedere la Groenlandia come fosse un’auto usata. La Germania, perno e riflesso del potere americano sul continente europeo per otto decenni, strattonata al fine dichiarato di sovvertirne il sistema.
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Tra le conseguenze nefaste di una guerra, oltre alle illusioni e ai miraggi delle “vittorie”, la storia ci ricorda quanto è dura, per uno Stato e per una società, digerire una sconfitta. Senza scomodare quella tedesca nella Prima guerra mondiale, che sfociò dritta nel nazismo, o il contemporaneo smembramento dell’Ungheria, ancora oggi “usato” per alimentare la svolta autoritaria di Budapest, gli stessi americani impiegarono un paio di decenni a liberarsi dal trauma del Vietnam: ci riuscirono grazie al crollo del comunismo. Fu però anche quella una vittoria che seminò pericolose illusioni germogliate poi in acri sconfitte: l’Iraq, l’Afghanistan, e ora l’Ucraina – benché qui non ci sia un impegno militare diretto sul terreno.
Il secondo mandato di Trump dovrebbe porre il Paese nelle condizioni di analizzare le mancanze sistemiche che hanno provocato l’esito negativo della guerra – con l’obiettivo ideale di ripararle per non ripetere l’errore in futuro. Ma la deriva lanciata dalla nuova amministrazione sembra invece condurre gli Stati Uniti in uno di quei labirinti di specchi dove ci si perde travolti dalla ridondanza illusoria della propria immagine, e ci si ritrova in solitudine alla disperata ricerca di qualcun altro che conosca una via d’uscita.
L’opportunità cinese
Non è detto che questo sia l’esito. A differenza del passato, viviamo oggi in un mondo più fluido e ricco di alternative. Ed è anche vero che il trattato di pace tra Russia e Ucraina non è stato ancora scritto – anzi, purtroppo restiamo lontani anche dalla possibilità di una vera tregua. Concedere a Mosca grossi bocconi di un’Ucraina che Washington sostiene da quasi vent’anni, e che da quasi vent’anni la Russia cerca a sua volta di dominare con ogni mezzo, potrebbe affrettare la fine della guerra, ma potrebbe anche far chiedere a molti quale sarebbe a questo punto la convenienza di un’intesa politico-militare con gli Stati Uniti.
Quale valore dimostrerebbe di avere la protezione americana? A Pechino e in tutta l’Asia sono persino più interessati di noi ad avere una risposta. Nel 1979, quando la sovranità sul Canale di Panama fu restituita in modo graduale e controllato allo stato centroamericano, i cinesi pedalavano in sciami di migliaia indossando i loro cappelli a cono di paglia e riempivano di fiori le delegazioni USA in visita. Ma oggi, senza clamore, senza sbattere i pugni sul tavolo, sono diventati la prima potenza industriale del mondo e possono intervenire su tutti i tavoli di gioco. Ormai metà degli adolescenti occidentali passa le giornate su Tik Tok. E in una settimana il bot di intelligenza artificiale DeepSeek ha bruciato centinaia di miliardi di quotazione borsistica delle aziende americane. Si tratta del tech, proprio il terreno dove gli Stati Uniti esibiscono la loro superiorità.
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La Cina è uscita malconcia dalla pandemia; sta registrando livelli di dissenso sociale mai visti da decenni, grazie a condizioni economiche in peggioramento e a un potere più che consolidato, immobile. La natalità è in calo drammatico (con un tasso minore persino che in Italia) e nel 2024 la sua popolazione è diminuita per il terzo anno consecutivo. Ma la posizione di netta superiorità ottenuta nella partnership con la Russia, provocata dal dissanguamento di Mosca nei tre anni di guerra le offre ulteriori, preziose chiavi di ingresso e influenza in Asia, Africa ed Europa. Potenzialità evidenziate dalla crescita dei BRICS – soprattutto politica finora, più che concreta, ma significativa.
La condizione europea
Ci si può dunque ragionevolmente chiedere se l’aggressività esibita dagli Stati Uniti non nasconda la consapevolezza di una debolezza intrinseca che per vari motivi ci si rifiuta di ammettere. Non sempre la razionalità è la chiave per interpretare il comportamento e le decisioni di chi ci circonda – siano pure i dirigenti della prima potenza mondiale. Cercando una spiegazione razionale, si potrebbe ipotizzare che concedendo a Putin una pace alle sue condizioni, Washington spera di fare un passo nella direzione di separare la Russia da quell’intesa simbiotica (ma soffocante) con la Cina. L’obiettivo sarebbe quindi isolare Pechino e rompere l’edificio che ha costruito in questi anni, di cui Mosca è un pilastro portante. Negli anni ’70 gli Stati Uniti, in effetti, riuscirono a separare le due potenze comuniste. Che la cessione del Donbass e della Crimea equivalga alla diplomazia del ping pong dei tempi di Nixon-Kissinger?
Da parte loro, Trump e Musk fanno poco per comunicare fiducia, e molto per trasmettere spietatezza e “cattivismo”. Ma soprattutto incutono angoscia, imprevedibilità e mancanza di scrupoli. Diffondono panico per fare paura, o perché hanno paura? E’ una domanda che deve trovare risposta anche perché i due si dicono portatori di un progetto di igiene sociale, “salvare” l’America di un tempo, non solo politico.
La Conferenza sulla Sicurezza di Monaco ha mostrato in diretta la fine di un’epoca, quella che durava dal 1945, e il palesarsi di questo tipo di sentimenti. Si dice e si ridice di una UE ridondante e intrappolata nei suoi eterni difetti, che ne stanno erodendo ormai le fondamenta, ma va comunque sottolineata la brutale pretesa di subordinazione esplicitata dal Vicepresidente JD Vance nei confronti dei Paesi europei: l’Europa disturba profondamente la Casa Bianca, che sembra considerarla una congrega di profittatori molesti e millantatori che prospera alle spalle dell’operoso cittadino americano. In Europa non c’è l’epidemia di oppioidi. In Europa esiste ancora l’industria. In Europa non c’è l’epidemia di aviaria. In Europa si vive mediamente cinque anni di più che negli Stati Uniti. Inaccettabile.
Impulsi forse già esistenti, ma che si manifestano ora con una chiarezza e crudezza senza precedenti: gli USA sembrano davvero aver trovato il loro nuovo bersaglio. Dall’Europa che senza fiatare ha seguito la linea degli Stati Uniti, pagando persino di più di Washington per sostenere l’Ucraina, ora si pretendono obblighi commerciali, nuove spese militari (e dibatteremo se farlo “perché ce lo chiede l’America”, o “perché l’America ci ha lasciati soli”), la non regolazione degli intoccabili miliardari del tech, e l’esclusione dai negoziati per la pace. Forse doveva fiatare, o forse dovrebbe.
E se la guerra ha davvero trasformato l’Ucraina in una nazione d’Europa, ciò spiega il disprezzo esibito da Washington per Kiev. L’Ucraina: Paese europeo aggredito da un leader che Trump ammira – e che il giorno prima dell’invasione definiva “genio”. L’Ucraina: la prima destinataria dei fondi USAID, l’agenzia di cooperazione internazionale che la furia di Trump e Musk ha annientato in un giorno. Il destino che le toccherà sarà una vera prova del nuovo rapporto tra le due sponde dell’Atlantico.