Un riassetto asiatico per ridurre la dipendenza economica dalla Cina

Nel grande dibattito sull’aspetto che avrà il mondo dopo la pandemia di Covid-19, una delle parole che viene ripetuta più spesso – assieme a «globalizzazione» – è decoupling. Lo “sganciamento” economico e commerciale, cioè, dalla Cina. A spingere maggiormente in questa direzione sono gli Stati Uniti di Donald Trump, che in una recente intervista a Fox News ha detto che potrebbe addirittura «tagliare del tutto i rapporti» con Pechino – affermazione tanto vaga quanto preoccupante.

Al di là delle dichiarazioni del presidente, a Washington si sta effettivamente discutendo di implementare misure speciali – sgravi fiscali, nuove regole, un fondo da 25 miliardi di dollari – per incentivare le aziende statunitensi a spostare la produzione fuori dalla Cina e magari riportarla in patria. L’obiettivo è ridurre la dipendenza dell’America dalla filiera cinese, specialmente per quanto riguarda i settori critici per la sicurezza nazionale. L’idea – che piace sia ai Repubblicani che ai Democratici – non è nuova, ma ha guadagnato slancio con la crisi del coronavirus. Negli Stati Uniti, ma anche in Giappone. L’ex-rappresentante americana alle Nazioni Unite, Nikki Haley (personaggio che si dice abbia grandi ambizioni politiche, e tra i pochi ex-membri dell’amministrazione ad aver retto l’urto della personalità di Trump), ha per l’appunto scritto su Twitter che «gli Stati Uniti non sono l’unico Paese che cerca di cambiare strada con la Cina. Nel mezzo della pandemia, il primo ministro giapponese Abe ha proposto una politica di “allontanamento” per costruire un’economia meno dipendente dalla Cina».

Decoupling

 

Con parole molto meno crude di quelle di Trump, lo scorso aprile il governo di Shinzo Abe ha infatti annunciato lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari (circa 240 miliardi di yen) per aiutare le aziende nazionali a sostenere le spese di trasloco dalla Cina. Nello specifico: 2 miliardi per le imprese che torneranno nel Paese del Sol Levante, e 200 milioni per quelle che vorranno delocalizzare nel Sud-est asiatico.

Tokyo dipende moltissimo dalla Cina, suo primo partner commerciale nonché fonte di oltre il 20% dei componenti e dei materiali di cui le industrie giapponesi hanno bisogno. Questa dipendenza è emersa con tutte le sue criticità con l’emergenza coronavirus: la chiusura delle fabbriche cinesi ha causato un “blocco” nella catena di approvvigionamento e lasciato il Giappone nell’incapacità di soddisfare la richiesta interna di mascherine. Tokyo ha avuto difficoltà anche ad aumentare la produzione di ventilatori polmonari.

Lo spavento ha convinto il governo all’azione. In un’intervista al quotidiano giapponese Nikkei, il capo di gabinetto Yoshihide Suga – considerato il braccio destro di Abe – ha detto che «dobbiamo porre fine alla forte dipendenza da un singolo Paese […]. Dobbiamo riportare in Giappone la produzione delle cose essenziali per la nostra vita quotidiana, o diversificarla in più paesi».

Ma il decoupling dalla Cina non è un’operazione facile, come non è facile rinunciare al suo grande mercato. La geografia potrebbe venire in aiuto del Giappone: il Sol Levante è prossimo al Sud-est asiatico, una regione fortemente integrata e già sviluppata sul versante manifatturiero, anche nel settore elettronico. Come ha scritto Parag Khanna sul Financial Times, sono tante le multinazionali che vedono nel Sud-est asiatico un’opportunità e una meta per trasferirvi la produzione. Samsung già realizza i suoi smartphone in Vietnam, e anche Apple pensa di cominciare a produrre lì i suoi auricolari AirPods.

Il “disaccoppiamento” dalla Cina proposto da Abe piace molto agli Stati Uniti, che del Giappone sono un alleato importante. Questo legame speciale potrebbe favorire il coordinamento su un tema centrale nello scontro fra Washington e Pechino: la tecnologia. Oltre ad allontanare dalla Cina la produzione manifatturiera ad alto valore aggiunto, il Giappone potrebbe cioè limitare il commercio di chip – di cui Tokyo è uno dei principali produttori al mondo – verso la Repubblica popolare. Nonostante il livello raggiunto in tanti settori, dal 5G all’intelligenza artificiale, la Cina infatti non brilla nella realizzazione di semiconduttori e dipende dalle forniture straniere.

«Controlli più stretti sulle esportazioni di chip potrebbero diventare un argomento [di discussione, ndr] in futuro», ha rivelato al Nikkei una fonte governativa giapponese. Una possibilità che sembra parecchio concreta, dato che il team nipponico incaricato di sviluppare la strategia di decoupling è stato nominato dal Consiglio per la sicurezza nazionale (l’organo che si occupa di coordinare le politiche di sicurezza del Paese) ed è in contatto con l’omonima agenzia statunitense.

Nella competizione tecnologica con la Cina, l’America dispone di un’altra fondamentale pedina asiatica: Taiwan, che Pechino peraltro considera una semplice provincia del suo territorio da riportare sotto il controllo della madrepatria. A metà maggio la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), che produce microchip avanzati per molte altre aziende (Apple, Qualcomm, Huawei), ha accettato di aprire una fabbrica negli Stati Uniti, in Arizona. Subito dopo, l’amministrazione Trump ha annunciato nuove restrizioni verso Huawei, con l’obiettivo di impedire al colosso cinese delle telecomunicazioni e degli smartphone – ritenuto una minaccia alla sicurezza nazionale – di accedere a componenti e software realizzati con tecnologie americane, come i fondamentali semiconduttori.

Tra i motivi del trasferimento di TSMC, anche la fuga di cervelli verso la Cina

 

La notizia del trasferimento di TSMC negli Stati Uniti conferma l’intreccio, fortissimo, tra tecnologia e geopolitica. Washington si intromette con forza nell’“affare Taiwan” e mette un’azienda dal grande valore strategico (anche militare) al riparo da Pechino, che ambisce alla riunificazione con l’isola. L’amministrazione Trump punta ad isolare Huawei e, così facendo, ad ostacolare l’ascesa tecnologica cinese. Accelerando però, secondo diversi analisti, le mire autarchiche di Pechino.

Sebbene TSMC sembra essersi ritrovata coinvolta suo malgrado in un gioco più grande di lei, la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen è nota per la sua opposizione alle ingerenze cinesi e per aver rafforzato il legame con gli Stati Uniti. Ma anche Tsai è consapevole dell’importanza che i rapporti economici con Pechino rivestono per l’isola: una consapevolezza che impone prudenza nelle parole e nei fatti.

C’è un’altra grande nazione asiatica – oltre al Giappone – che sta rivalutando le relazioni con la Cina: l’India. Il 17 aprile l’esecutivo nazionalista di Narendra Modi ha introdotto delle restrizioni agli investimenti diretti esteri, secondo le quali ogni operazione proveniente da un Paese confinante dovrà prima ricevere l’approvazione del governo. La norma, che dovrebbe servire ad impedire «l’acquisizione opportunistica» di aziende indiane in difficoltà per il coronavirus, è stata scritta pensando alla Cina, l’unico Paese confinante con il quale l’India abbia un legame commerciale di rilievo.

Gli investimenti cinesi in India non raggiungono percentuali impressionanti se paragonati a quelli in altre parti d’Asia, ma negli ultimi anni si sono concentrati soprattutto nei settori tecnologico e farmaceutico. Due aree particolarmente sensibili, che hanno destato la preoccupazione di Nuova Delhi sia per quanto riguarda il possibile accesso di Pechino ai dati della popolazione indiana, sia per quanto riguarda la salute della supply chain in tempi di pandemia: come nel caso giapponese, il Covid-19 ha fatto emergere la dipendenza dalla Cina per le materie prime ad uso farmaceutico.

 

 

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