A seguito del voto del Massachusetts – nelle elezioni suppletive per il seggio al Senato – si possono trarre due tipi di bilanci: il primo è quello sui dati elettorali e sui sondaggi post-elettorali effettuati per capire chi, come e perché ha votato – o non ha votato – per il Repubblicano Scott Brown e per la Democratica Martha Coackley; il secondo riguarda le analisi dei pundits, un esercito composto di centinaia di voci. E’ un coro cacofonico nel quale emergono contrapposizioni fin troppo semplicistiche: Obama non è stato sufficientemente aggressivo contro lobby e poteri forti; Obama deve essere più moderato; i repubblicani vincono con candidati nuovi (Brown) e perdono con quelli vecchi (McCain); gli americani odiano il governo; no, è mancato il vero change; “All politics is local”, non c’entra Obama; è stato un referendum contro Obama e la riforma sanitaria, etc.
Torniamo al voto. In termini assoluti i dati sono impressionanti: rispetto alle presidenziali del 2008, la Coackley ha ottenuto quasi 900mila voti in meno di Barack Obama; Brown 60mila in più di quelli che ebbe John McCain. Considerando il calo fisiologico di votanti per un’elezione suppletiva – circa tre milioni nel 2008 contro i due del 2010, dal 73% al 54% degli aventi diritto – è più che evidente come Brown abbia ottenuto un ottimo risultato e quanto invece abbia contato la defezione degli elettori democratici (aggiudicandosi poco più del 10% di quei 900 mila la Coackley avrebbe vinto le elezioni, perse per 110 mila voti).
La candidata dei Democratici è andata male quasi ovunque: nelle sue roccaforti, nelle contee della suburbia più contendibili (e favorevoli a Obama poco più di un anno fa) e nelle zone dove vive la working class: nelle contee dove è aumentata in modo significativo la disoccupazione Obama ha perso in modo sensibile. O meglio: nelle proprie roccaforti – lo spazio urbano di Boston, per esempio – i Democratici hanno perso poco in termini percentuali, ma si è avuto un poderoso calo della partecipazione al voto: il 35% in meno a Boston e il 30% in meno nelle altre aree dove Obama aveva vinto con più del 10% di scarto; nella altre contee, quelle dove lo scarto era minore o nelle poche nelle quali McCain ce l’aveva fatta, il calo è stato “solo” del 25%. Nelle contee democratiche la partecipazione è calata poco esclusivamente laddove gli elettori hanno un livello di formazione piuttosto elevato, come Cambridge (dove si trovano Harvard e il MIT, per intenderci): i premi Nobel votano per il loro collega Barack Obama.
Il tutto a ricordarci, tra l’altro, come negli Stati Uniti le constituencies delle elezioni presidenziali non corrispondano a quelle del Congresso o del governatorato. Il Paese, infatti, è costellato di storie simili a quella di Scott Brown: la più eclatante del 2009 era stata quella del collegio 23 per la Camera dei Rappresentanti dello Stato di New York, perso dai Repubblicani – a causa dello scontro interno tra fazioni del GOP – per la prima volta dai tempi della Guerra Civile.
Le considerazioni su queste elezioni sono quindi al tempo stesso corrette e fallaci: si tratta di un vero campanello d’allarme per l’amministrazione, ma non della migliore cartina di tornasole per l’appuntamento elettorale di novembre (dando comunque per scontato l’arretramento del partito democratico, visto che il partito del presidente non vince mai nelle elezioni di metà mandato).
Perché il Massachusetts non rappresenta veramente “un nuovo spirito dei tempi” – a poco più di un anno dalle presidenziali – della società americana? Il dibattito oggi ruota attorno al tema del nuovo umore dell’elettorato, grazie anche ai sondaggi post-elettorali: il più significativo è quello commissionato dal Washington Post, la Henry J. Kaiser Foundation e la Harvard University’s School of Public Health. Sembra emergerne chiaramente un ribaltamento delle priorità dell’elettorato americano, e un’espressione di voto legata in effetti a temi nazionali piuttosto che locali. Il sondaggio evidenzia come nel 2008 il 63% degli elettori del Massachusetts volesse un aumento delle responsabilità dirette del governo, mentre oggi la percentuale è già scesa al 50%. Peccato che l’elettorato del 2008 e quello del 2010 non corrispondano: mancano all’appello un 20% di elettori, buona parte dei quali democratici.
Sondaggi accurati – e siamo certi che qualcuno li farà – andrebbero condotti prima di tutto tra quegli elettori di Boston che non sono andati a votare, al di là degli indipendenti e dei membri della working class che hanno cambiato opinione e abbandonato Obama in favore di Scott Brown. Quest’ultimo aspetto sembra una parte del problema, ma forse non il problema fondamentale. La domanda centrale è: perché nel 2008 si sono messi in fila ai seggi e nel 2010 no? Dove sono quei 900 mila? E’ un problema di organizzazione, di stanchezza fisiologica, di crisi (magari passeggera) del messaggio obamiano, o c’è veramente qualcosa di più profondo sul quale interrogarsi? E’ soprattutto lì la chiave del successo o dell’insuccesso democratico.
E’ chiaro a questo punto che il partito democratico e l’amministrazione devono cercare una strategia di riconquista dei cuori e delle menti in vista delle elezioni di mezzo termine in novembre: la prima mossa è il ritorno di David Plouffe – lo stratega delle elezioni del 2008 – al timone di comando, a cavallo tra il Democratic National Committee (DNC) e “il partito del presidente”, cioè Organizing for America. Dopo le sconfitte per i governatorati del New Jersey e della Virginia, quella del Massachusetts è la prova di una difficoltà evidente dell’amministrazione e del partito democratico, ma conferma quanto le elezioni – soprattutto in America – si vincano riuscendo a mobilitare le proprie truppe e il bacino delle proprie constituencies. Che si apprezzi il fuoco della lotta politica all’ultimo sangue o si detesti l’inevitabile populismo che esso genera, si deve registrare ancora una volta come la polarizzazione ideologica sia il tratto dominante degli ultimi decenni della politica americana: in questa prima tornata elettorale post-insediamento è stato galvanizzato il popolo anti-Obama, è salito alla ribalta il movimento conservatore del Tea Party, si è incrinata la “narrazione obamiana” del change e indebolita la sua base di proseliti. Il risultato? Il rinculo del partito democratico nelle elezioni di mid-term colpirà i moderati di quel partito, vittoriosi nel 2006 e nel 2008 in collegi in bilico; ed è possibile che il profilo dei Congressmen si faccia ancora più netto, con Democratici più liberalcontrapposti e Repubblicani più conservatori. La palla ora è nel campo di questi ultimi: quanto forte continuerà a soffiare il vento della guerra ideologica in vista delle elezioni di novembre?