Tre scenari sul viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan

Terminate le esercitazioni cinesi nell’area limitrofa a Taipei, è giunta l’ora di una prima – ancorché parziale – analisi del viaggio di Nancy Pelosi in estremo Oriente. Si è trattato effettivamente di un clamoroso autogol, che ha innalzato nel momento meno opportuno la tensione internazionale, fatto sussultare gli alleati di Washington in Asia e, potenzialmente, impegnato gli Stati Uniti su un secondo fronte, dopo quello europeo? Oppure, dietro la mossa della Speaker della Camera ci potrebbero essere ragioni – interne, magari – valide sul piano del calcolo politico?

Al di là del clamore suscitato dal comportamento di Pelosi, l’attenzione che la visita ha attratto su entrambe le sponde dell’Atlantico è meritata: è importante spiegare la scelta da parte di un esponente chiave del potere legislativo e del Partito Democratico degli Stati Uniti di recarsi proprio a Taiwan, nel contesto di un tour della regione.

Due persone protestano a Taiwan contro la visita di Nancy Pelosi

 

Una prima disamina potrebbe muovere dall’etnocentrismo che connota la leadership statunitense. Dalla loro fondazione, il supporto alla democrazia e ai movimenti antimperialisti rappresentano i pilastri dell’identità politica degli Stati Uniti, i quali si sono costituiti come nazione definendosi, appunto, in contrapposizione a un regime monarchico e al controllo politico di una potenza esterna al continente americano. Il sostegno a Paesi o movimenti ritenuti in qualche modo affini per natura o scopi costituisce evidentemente un tratto peculiare dell’identità politica degli Stati Uniti, dunque un fattore funzionale a consolidare e reiterare nel tempo il mito fondativo della nazione americana – a maggior ragione in una congiuntura nella quale il regime di Washington è sfidato altrettanto dall’interno che sul piano internazionale.

Se assumessimo una prospettiva interna, dunque, nell’imminenza del possibile annuncio da parte di Donald Trump di una sua ri-candidatura in vista del 2024 e di fronte alle indecisioni di un Presidente come Biden che non incarna, per molti americani, l’immagine di comandante in capo della maggiore democrazia mondiale, l’eccentricità della mossa della Pelosi avrebbe potuto rispondere a due esigenze. La prima, quella di consolidare presso l’elettorato Democratico l’idea che, a dispetto della opacità di Joe Biden, in seno al partito ci fossero comunque figure assertive, in grado di rispondere alle offensive politico-mediatiche di Trump. La seconda, quella di ribadire – ancora una volta all’interno, magari proprio ai seguaci di Trump – che, benché la Presidenza potesse apparire debole, le istituzioni americane, di contro, godessero di ottima salute e che il Congresso si sarebbe mantenuto pronto a difendere coloro i quali lottano per la democrazia e l’autodeterminazione, dentro e fuori i confini degli Stati Uniti.

Veniamo alla Cina. Benché la mia considerazione sull’intuito dei leader americani non sia delle più elevate dacché G. W. Bush disse di Vladimir Putin che ne aveva colto l’anima di una persona degna di fede, non sembra ragionevole ipotizzare che un politico di esperienza come Nancy Pelosi avesse omesso dalla sua equazione la reazione di Pechino. Al contrario, assumere che la mossa dello Speaker della Camera gravitasse proprio attorno al calcolo riguardo al punto sino al quale si sarebbe spinta la risposta della Cina di fronte a un endorsement da parte di Washington alla causa di Taipei, pare coerente con la spiegazione di matrice interna cui si è fatto cenno.

Che Pechino avrebbe reagito in maniera decisa e puntuale costituiva una certezza, del resto. Anzi, la prevedibilità della reazione della potenza asiatica (almeno nelle sue linee essenziali, ovvero che dal viaggio sarebbe derivata una qualche risposta ad alta visibilità ma non un conflitto armato vero e proprio) rappresentava sulla carta l’ingrediente più efficace e reperibile (al costo di un solo volo di Stato) sia per neutralizzare mediaticamente Trump proprio a ridosso dell’eventuale annuncio di una sua ricandidatura, sia per creare un senso di coesione attorno alle istituzioni democratiche, sfruttando eventualmente anche gli argomenti della minaccia esterna e della tutela dell’interesse nazionale. In questo caso, ovvero se effettivamente le ragioni interne fossero state il vettore alla base della condotta di Nancy Pelosi, non saremmo dunque di fronte a un autogol, ma piuttosto a un colpo assai bene assestato.

 

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La peculiarità dello stile politico di Donald Trump, notoriamente, è quella di spiazzare gli antagonisti con entrate in scena ad effetto, il cui clamore mediatico deriva in genere dalla loro apparente irrazionalità. L’occasione della sua annunciata ricandidatura, in tal senso, non solo non avrebbe fatto eccezione ma, anzi, si prestava a diventare il contesto ideale per una messa in scena degna di un istrione come il tycoon.

Come neutralizzare, insomma, un maestro della teatralità? Un buono stratega avrebbe suggerito: cogliendolo di sorpresa. Anticipandolo dunque, attaccando per primi, e su un terreno sul quale lui non avrebbe mai sfidato il proprio avversario: quello ad esso più favorevole. Non si tratta esattamente di ciò che ha fatto Nancy Pelosi? Ancorché risoluta, decisa e carismatica, della leader Democratica certo non si può dire che ci avesse abituato a uscite estemporanee e intromissioni nella sfera operativa della Presidenza, perfino quando a guidare la nazione vi era un nemico come Trump. Per questo motivo, proprio una manovra a tal punto eccentrica meritava una riflessione in linea con l’altro profilo del personaggio.

Gli effetti sullo scacchiere internazionale per ora paiono simili a una scossa di assestamento. Difficile dire se il presagio nefasto di Henry Kissinger rispetto all’eventualità che gli Stati Uniti muoveranno inconsapevolmente verso la guerra con Russia e Cina sia corretto – forse più che di mancanza di consapevolezza varrebbe la pena valutare il rischio di una profezia che si autorealizzi. Tuttavia, se come lo stesso Kissinger ha più volte ribadito, i deficit nella politica estera di Washington derivano dalla subordinazione delle priorità internazionali alle esigenze politiche interne, la spiegazione ipotizzata per il comportamento di Pelosi risulterà perfettamente coerente. Efficace sul piano della temporanea neutralizzazione di Trump, mentre potenzialmente fallimentare sul fronte della stabilità internazionale, perché dettato da logiche domestiche di mera contingenza – dunque, privo di visione strategica. Del resto, secondo quanto trapelato dalla stessa amministrazione, Biden avrebbe cercato fino all’ultimo di dissuadere lo Speaker della Camera dal visitare Taiwan, pur rispettandone l’autonomia come figura parlamentare.

Accanto a questa ipotesi, vi sono altre due possibili spiegazioni sottostanti la nuova mossa di Washington verso Taipei. Una prima si fonda sulla tendenza da parte dei leader statunitensi a leggere il contesto internazionale – o meglio i contesti nazionali diversi dal proprio – in maniera talora ipersemplificata. Questa tendenza a ‘normalizzare’ gli altri attori internazionali, del resto, in molti casi ha condotto alla sottovalutazione di differenze invece decisive, così come verso l’assimilazione di casi e contesti talora assai lontani gli uni dagli altri e, di conseguenza, all’impiego di strategie inadatte rispetto allo scopo e al teatro operativo. Un caso emblematico in tal senso è rappresentato dalle gestione della lotta globale al terrorismo, in particolare con riferimento alle improprie analogie istituite tra il caso afghano e quello iracheno. Ciò detto, non sorprenderebbe se Nancy Pelosi avesse ritenuto che Taipei potesse essere trattata alla stregua dell’Ucraina, ignorando quindi fondamentali differenze tra la geopolitica terrestre e quella marittima, tra i paradigmi strategici della Russia e della Cina e, infine, tra lo status giuridico dell’Ucraina e quello di Taiwan.

Una cosa, infatti, è rispondere all’invasione da parte di uno Stato confinante a uno Stato riconosciuto come sovrano dalla comunità internazionale, altra quella di muoversi di fronte alla una minaccia eventuale posta ad un’isola – dunque un’entità geografica protetta naturalmente dal mare – il cui status internazionale è tuttora controverso (perfino secondo la linea ufficiale di Washington). Si badi, non si intende affermare che Taipei non vada tutelata e che tra le sue risorse di potere e quelle cinesi non sussista un profonda asimmetria ma, piuttosto, che i metodi con cui tale azione andrà eventualmente condotta non sono assimilabili a quelli usati in Europa. I due casi sono e si manterranno dissimili. Dunque, se il comportamento del vertice della Camera fosse stato ispirato effettivamente da tali premesse errate, da una lato esso sarà spiegabile proprio in relazione a certi “bias” presenti nella cultura politica statunitense in materia di politica estera e strategia, dall’altro costituirà effettivamente una mossa poco avveduta.

Un corollario all’ipotesi di cui sopra, poi, è costituito dall’eventualità che Nancy Pelosi, pur conscia delle differenze tra lo scenario europeo e quello pacifico, intendesse alimentare deliberatamente una qualche forma di assimilazione tra la guerra in corso in Europa e una possibile crisi nel Pacifico al fine di sondare l’effettiva coesione tra gli alleati asiatici di Washington e, sfruttare la reazione di Pechino alla sua visita presso Formosa, per consolidare il ruolo degli Stati Uniti rispetto ai propri partner –e semmai individuare eventuali forme di riluttanza tra gli alleati.

 

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Un terzo scenario, infine, è che il viaggio, pur rischioso, servisse a creare le condizioni ottimali per l’ufficializzazione del CHIPS and Science Act (il 9 agosto, dopo l’approvazione del Congresso)un piano di investimento pubblico del valore di 52 miliardi per rilanciare la produzione autoctona di semiconduttori. La manovra per vastità e complessità non è stata concepita nottetempo. Al contrario, i negoziati – ostici soprattutto in ragione delle resistenze di una certa parte di business a stelle e strisce – si sono protratti per oltre un anno. Una cosa, tuttavia, è presentare un disegno del genere come un lungo e talora penoso lavoro di ricomposizione degli interessi nazionali con una classe dirigente riluttante e proiettata verso i fornitori più economici, altra quella di lanciare il CHIPS Act come una grande chiamata alle armi nell’imminenza da parte del nemico futuro di un accerchiamento ai danni del principale produttore mondiale di semiconduttori e chip, nonché di un Paese pronto ad abbracciare i valori democratici.

La narrativa, sul piano dei simboli, appariva evocativa, rinviando alla Seconda guerra mondiale o a certe fasi della Guerra fredda (penso all’amministrazione Reagan), quando la lotta per le libertà altrui si era saldata a un immenso sforzo produttivo che aveva saputo rilanciare l’economia dopo momenti difficili come la crisi del ’29 o la stagflazione degli anni Ottanta. Insomma, anche in questo caso, l’azzardo dello Speaker della Camera appare tutto sommato come un ‘male’ sopportabile e necessario a creare il clima più adatto a sostenere un grande progetto nel quale lo Stato ricoprirà il ruolo di risk taker come finanziatore di ultima istanza dell’industria americana, per ora non ancora nata, dei semiconduttori avanzati.

 

 

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