Immaginate una X, abbastanza grande per coprire un range che va da 0 a 100, ovvero le percentuali con cui un tema è visto come prioritario da elettori democratici o repubblicani negli Stati Uniti; principali preoccupazioni che si traducono in intenzioni di voto.
Su questa X sono infatti rappresentate le maggiori questioni di interesse pubblico per le prossime elezioni di midterm. Per chi è intenzionato a votare un candidato democratico o repubblicano per la Camera dei rappresentanti, ci sono questioni di interesse come: il riscaldamento globale, i diritti civili, l’inflazione, le tasse, l’immigrazione, anche l’aborto e la sanità. Su tutte queste tematiche, le intenzioni di voto degli elettori appartenenti ai due schieramenti sono fortemente polarizzate. In sostanza, gli elettori che andrebbero a votare per la Camera sono spinti a farlo in modo più deciso a favore dei democratici se sono interessati a: cambiamento climatico, diritti civili, aborto, sanità, istruzione e controllo delle armi. Diversamente, sono intenzionati a votare repubblicano se ritengono importanti: immigrazione, tasse, inflazione, “sicurezza nazionale”.
L’unico tema su cui le intenzioni di voto non lasciano un vantaggio pesante a favore di una parte specifica, anche se il GOP è un po’ avvantaggiato perché è all’opposizione, è quello generale dell’economia e del lavoro: mentre l’unico tema ad appassionare gli elettori in maniera paritaria è quello delle libertà civili. Più si approssimano le elezioni di medio termine, tuttavia, e più cresce la preoccupazione sul fronte economico, anche perché il timore di una recessione si fa sempre più forte. E come ha sottolineato Bernie Sanders in uno degli appuntamenti elettorali a sostegno di un candidato Dem in Texas, “quello che hanno in mente gli americani è l’economia e l’inflazione”. Se si lascia spazio di manovra al GOP su questo per il partito Democratico non c’è partita.
Questa è la radiografia (“X-rated”) ad un mese dal voto alle elezioni di metà mandato, condotta dalla società di sondaggi online YouGov per The Economist. E mostra come i temi economici (lavoro, inflazione, tasse) siano tra le principali motivazioni del voto repubblicano. Potremmo dire, confermando la famosa espressione coniata da James Carville, lo stratega elettorale artefice della vittoria del democratico Bill Clinton alle elezioni presidenziali del 1992: “è l’economia, stupido”, che in anni di crisi come questo (e com’era allora ai tempi di Clinton) domina le preoccupazioni dei cittadini. Ma è anche il caso di dire: è la spietata matematica.
La teoria del vecchio saggio, su un tema come quello economico, è confermata dai numeri anche di altri istituti demoscopici. I dati dell’istituto di rilevazioni Gallup indicano chiaramente che il 51% degli adulti intervistati (un sondaggio che Gallup conduce per ogni tornata elettorale) ha maggior fiducia nel Partito Repubblicano su questioni cruciali come l’inflazione e l’economia, a confronto con un 41% che conta sul Partito Democratico per far fronte a queste problematiche. Le analisi di YouGov sono ancora più definitive: il 63% degli intervistati che ha tra le prime preoccupazioni l’economia, dichiara che voterà “probabilmente” o “assolutamente” per i Repubblicani. Il 28% per i Democratici. Il gap tra i due partiti sui temi economici non è mai stato tanto ampio dal 1991, sebbene negli ultimi quindici anni i Repubblicani abbiano sempre mantenuto un vantaggio in questo ambito.
Sul fronte dell’aborto e delle libertà civili il vantaggio è invece tutto per il Partito Democratico, come sempre è stato. Il punto è, come sostiene YouGov, che non si tratta di un tema trascinante, almeno in apparenza: Dal 4% si è passati al 9% degli elettori che dichiarerebbero l’aborto una questione chiave in queste elezioni. E lo è per il 75% degli elettori che si definiscono democratici, contro un 21% di quelli che si definiscono repubblicani.
Se i diritti contano: “Roe-vember”
Dopo la sconfitta di Hillary Clinton contro Donald Trump alle presidenziali del 2016 perdura una sorta di maledizione sulle previsioni di voto a favore dei Democratici. Per tradizione le elezioni di medio termine che rinnovano 435 membri della Camera dei rappresentanti e un terzo dei 100 membri del Senato (alternativamente 33 o 34) e circa 36 stati su 50, non sono mai favorevoli al partito del Presidente in carica. Nelle elezioni del prossimo 8 novembre i Democratici devono difendere 11 seggi alla Camera, che attualmente garantiscono loro la maggioranza, e una parità 50 a 50 in Senato. Le previsioni danno la Camera al Partito Repubblicano e un Senato sul filo del rasoio. Questa volta tuttavia le elezioni di medio termine potrebbero dare un risultato diverso e potrebbe esserci l’effetto di quello che anche il regista Michael Moore ha chiamato “Roe-vember”, il quale rivendica con orgoglio di aver previsto la vittoria di Trump nel 2016.
La cancellazione della “Roe v Wade”, la pronuncia della Corte Suprema che dal 1973 garantiva il diritto all’aborto in tutti gli Stati Uniti, sembra infatti pesare sulle intenzioni di voto e soprattutto negli Stati dove oggi l’aborto è tornato illegale, come indica la rilevazione del Kaiser Family Foundation: la percentuale di elettori pro-Dem che ritenevano la decisione della Corte Suprema sull’aborto determinante per il proprio voto è passata dal 37% a maggio al 50% ad un mese dalle elezioni dell’8 novembre.
Le promesse di alcuni Repubblicani di modificare la legislazione sull’aborto, una volta conquistati i due rami del Congresso alle midterm, potrebbero spingere al voto democratico più elettori di quanto si pensi. Lindsey Graham, il senatore repubblicano del South Carolina, ha annunciato il 13 settembre un piano per bandire a livello federale l’interruzione di gravidanza dopo quindici settimane, qualora il suo partito avesse la maggioranza nelle due Camere a novembre. Ci sarebbero delle eccezioni: in caso di incesto e stupro oltre che per salvare la vita della madre. Lo stesso 13 settembre in West Virginia è passato un disegno di legge che vieta l’aborto quasi completamente, a meno che non sia in pericolo di vita la madre o frutto di incesto o violenza. Non solo: la legge punisce chiunque compie un aborto dopo 8 settimane di gravidanza (anche i medici). Il ‘Mountain state’, così è chiamato il West Virginia, è uno dei più conservatori: nel 2018 a seguito di un referendum dove ha vinto il sì al divieto con il 52%, è stato inserito nella costituzione dello Stato questo emendamento contro l’aborto, non solo nella pratica ma anche nel finanziamento alle strutture che lo praticano. Alla luce di questo i Repubblicani credono che al West Virginia seguiranno altri stati, supportati anche dalla recente sentenza della Corte Suprema. L’annuncio di Graham, avvenuto lo stesso giorno del referendum, è servito a lanciare questa “Opa” contro l’aborto ma anche ai Democratici per rafforzare la propria campagna: la salute della democrazia contro la fine della democrazia.
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I sondaggi di YouGov mostrano ancora una volta che la maggior parte degli americani ritiene valide alcune restrizioni all’aborto dopo il primo trimestre di gravidanza ma anche che la possibilità di ricorrervi non può essere vietata in termini assoluti: il 30% è a favore dell’aborto in tutti i casi, un 30% è a favore di alcune restrizioni ovvero l’interruzione dopo la 25esima settimana e un altro 30% è a favore della restrizione assoluta dell’aborto eccetto per i casi già menzionati. Solo l’11% è favorevole a bandire l’aborto in ogni caso. La stessa rilevazione mostra anche che il 59% degli elettori democratici voterebbe per un candidato alle elezioni del Congresso del prossimo novembre anche per la sua sola posizione a protezione dell’aborto. Ma solo il 41% degli elettori repubblicani voterebbe in funzione di questa questione. In sostanza gli elettori a favore dei Dem sono molto più motivati e in opposizione al divieto nazionale, qualora un Congresso a maggioranza repubblicana lo introducesse, di quanto gli elettori conservatori supportano il divieto all’aborto. Fare dell’aborto una questione determinante alle elezioni di medio termine rischia quindi di essere un boomerang per il GOP, come sembra indicare anche la reazione di altri Stati che si stanno muovendo in direzione opposta al West Virginia: il Kansas ha già bocciato il divieto e il Michigan si appresta a votarlo con un referendum.
Secondo Elaine Kamark, già nell’amministrazione di Bill Clinton, accademica e fondatrice del Center for Effective Public Management – organizzazione di ricerca che fa parte della Brookings Institution- , le quattro elezioni che si sono tenute durante l’estate in quattro distretti –Nebraska, Minnesota, e nel 19esimo e 23esimo di New York – hanno marcato la direzione di marcia: in tutte (solo nel 19esimo NY ha vinto il candidato Dem), il tema dell’aborto è stato al centro del dibattito e il risultato elettorale dei candidati Dem è stato di gran lunga migliore persino di quello di Biden del 2020. Questo è un chiaro segnale, ha scritto su Brookings Institution Kamarck, di come l’aborto sia un fattore di orientamento del voto di novembre.
Come vota l’inflazione
Per quella classica congiuntura fatta di inflazione sostenuta, e politica ‘altalena’ della FED di rialzo pesante dei tassi di interesse seguito da una discesa allo scopo di non aggravare una ormai probabile recessione – la crescita economica degli Stati Uniti è data all’’1% dal Fondo Monetario ma le stime degli esperti sono sotto l’1, nel 2023. Quelle che si prospettano sono elezioni con una priorità chiara per la maggioranza degli elettori: l’economia.
Al Partito Democratico, negli ultimi giorni, si dava una possibilità su tre di mantenere la maggioranza alla Camera e quattro su cinque di mantenerla al Senato. Ma le rilevazioni puntuali del Pew Research Center indicano che se la preoccupazione principale è e resta, fino all’8 novembre, l’economia, c’è ancora un 18% di elettori che non sa cosa voterà, a fronte di un 41% già certo per i Dem e un 40% per i Repubblicani.
Il 79% degli intervistati dal Pew dichiarano che le questioni economiche saranno decisive per il loro voto, la percentuale più alta tra le 18 issue inserite nel panel della rilevazione. Eppure i segnali da parte del Presidente Joe Biden, e quindi del Partito Democratico, di impegno sulla lotta all’aumento dei prezzi ci sono stati: in agosto Biden ha portato a casa lo scorso agosto.
Approvata con solo i voti dei Dem e con il supporto del ‘reconciliation process’, che consente su provvedimenti legislativi di spesa e tasse di passare con la metà più uno dei voti della maggioranza anziché con 60 Senatori su 100, la legge prevede 370 miliardi di dollari in investimenti per l’energia nei prossimi dieci anni, 300 miliardi di dollari per la riduzione del deficit, tre anni di rinnovo dei sussidi previsti dall’Affordable Care Act, la legge voluta dall’ex Presidente Obama per dare a tutti i cittadini un’assicurazione sanitaria, la rinegoziazione dei prezzi dei farmaci da prescrizione e un aumento delle tasse sui più ricchi. Un successo, si direbbe; in realtà è la versione ridotta del Build Back Better Act , il provvedimento-bandiera dell’amministrazione Biden che non è riuscito ad andare avanti per divisioni interne ai Dem e un’opposizione senza quartiere da parte dei Repubblicani. Insomma: Biden ha realizzato uno dei punti dell’agenda ma l’inflazione resta sullo sfondo, a inquietare gli americani: il 28% dei rispondenti ad un sondaggio Reuters/Ipsos ritiene che sia il problema in assoluto più importante attualmente, con un 20% di elettori democratici e un 37% di repubblicani che lo mette in cima alla lista.
Ad aggravare il quadro, per i Dem, è ciò che gli americani considerano causa dell’inflazione:: la guerra in Ucraina, e il colpo inflitto dalla pandemia, un’opinione – viene ricordato da Reuters – condivisa anche da diversi economisti. Sempre ad agosto infatti il Presidente Biden ha promesso un nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina, quasi tre miliardi di dollari per munizioni, razzi laser, droni, sistemi antiaerei NASAMS, che possono contribuire a rendere ancora più pessimista l’opinione degli americani rispetto alle possibilità di recupero dell’economia, a fronte di una guerra che si preannuncia ancora lunga.
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Il voto giovane
Sempre in agosto Biden ha approvato il provvedimento per ridurre i debiti studenteschi, anche questo uno dei punti qualificanti dell’agenda che, non a caso, arriva a poche settimane delle midterm. Verranno cancellati 10mila dollari di debito per coloro che guadagnano meno di 125 mila dollari all’anno e 20 mila dollari per coloro che hanno usufruito di borse di studio Pell, cioè sussidi allo studio rivolti alle famiglie a basso reddito.
Peccato che solo qualche giorno fa la Corte d’appello dell’ottavo distretto abbia bloccato, seppur temporaneamente, la misura, sostenendo che nessun debito può essere cancellato. Dopo appena una settimana (metà ottobre) dall’avvio del portale per la procedura di richiesta della cancellazione, la corte è intervenuta. In soli sette giorni erano già state inoltrate richieste per 22 milioni di beneficiari, si stima oltre la metà degli eleggibili, e la Casa Bianca ha comunicato che le richieste potevano continuare ad essere inoltrate nonostante lo stop temporaneo dei giudici, indotto da un’istanza di sei Stati a guida repubblicana.
Biden e il suo partito, che pensavano di aver messo in cassaforte un altro risultato importante, avevano annunciato lo scorso agosto che con questo provvedimento sarebbe stato estinto il debito studentesco di 20 milioni di cittadini, su un totale di 45 milioni di americani con debiti studenteschi. La promessa di cancellare il debito da parte di Biden nella campagna elettorale del 2020 aveva mobilitato il voto dei giovani, tanto da aver conquistato il 60% delle preferenze dei 18-29enni, in un’elezione, così come già quella di medio termine del 2018, in cui la partecipazione elettorale delle fasce di età più basse era stata significativa.
Dai numeri del Pew Research Center sembrerebbe invece che le midterm del 2022 mobiliteranno i giovani in misura minore: il 51% dei 18-29 anni è altamente motivato ad andare a votare, la percentuale più bassa tra tutte le altre fasce di età. Il totale dei rispondenti senza distinzione di età è sul 72%.
Il dato indica una disaffezione dovuta a quanto non è stato realizzato ma era nell’agenda: la lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni razziali, una politica sui diritti più coraggiosa e non solo di difesa dell’esistente – peraltro non riuscita a causa della decisione della Corte Suprema sull’aborto, su cui Biden nulla ha potuto – una politica più incisiva sulla riduzione delle emissioni inquinanti e sul diritto di voto, ancora in stallo al Congresso, che colpisce gli afro-americani in alcuni Stati, con leggi restrittive che riducono la finestra di tempo per il voto, i seggi elettorali e ampliano i requisiti per esercitare il diritto di voto. Promesse che restano sul tavolo e che probabilmente non riusciranno ad essere trasformate in leggi, se la maledizione dell’anatra zoppa dopo le midterm si avvererà, e i Dem perderanno dunque la maggioranza al Congresso.