Gli anniversari sono una buona occasione per riflettere sul proprio passato, presente e futuro; il 2019 è un anno ricco di spunti per l’Europa, specie se si guarda ai fondamentali della sua pace, stabilità e sicurezza. Ricorre infatti il trentennale della caduta del Muro di Berlino, simbolo della fine della Guerra Fredda, e il ventennale dell’allargamento della NATO a Varsavia, Budapest e Praga, tre capitali simbolo dell’aspirazione oltre Cortina alla libertà e ai diritti occidentali. Vent’anni fa terminava anche il lungo ciclo delle guerre jugoslave, con l’intervento alleato in Kosovo che avrebbe posto fine una volta per tutte ai conflitti etnici, aprendo una nuova fase di stabilizzazione di un quadro regionale più frammentato.
Ricorrono anche i 15 anni del grande allargamento “a Est” dell’Unione Europea e della NATO fino al Baltico e alla Mitteleuropa, che ha avvicinato il Vecchio Continente a quell’idea di Europa unita, libera e in pace, faro dell’Occidente durante e dopo la Guerra Fredda. Guardando a sud delle coste europee, compie 25 anni il Dialogo Mediterraneo, che nel 1994 inaugurava i partenariati della NATO con il Nord Africa e Medio Oriente, e 15 anni la Istanbul Cooperation Initiative rivolta ai Paesi del Golfo: due iniziative simbolo dell’approccio multilaterale e diplomatico di un’alleanza politico-militare, e non solo militare, come quella nord atlantica.
Cosa ci dicono questi anniversari sul futuro dell’Europa e del legame transatlantico? Innanzitutto che la storia euro-atlantica non si fa, né si disfa, in un giorno. L’inclusione degli ex nemici del Patto di Varsavia nella stessa architettura di sicurezza occidentale in cui si erano integrati Paesi usciti da nazismo, fascismo, franchismo e altre forme di dittature è stato un percorso virtuoso ma pluridecennale, e non ancora del tutto concluso. Percorso che rappresenta un modello per quegli stati balcanici, come la Macedonia del Nord o la Bosnia, che cercano di fare i conti con il proprio passato e costruirsi un futuro di pace e democrazia. Tra dieci anni potrebbe ricorrere un anniversario della completa integrazione dei Balcani occidentali nella UE e nella NATO, qualcosa impensabile quando solo vent’anni fa la Serbia era sotto i bombardamenti alleati.
Infine, il 2019 vede il decennale dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, punto di arrivo di un lungo ciclo di negoziati europei che ha ridisegnato fondamenta e funzionamento del più straordinario esperimento politico di integrazione pacifica nella storia del Vecchio Continente. In questo caso guardiamo ad una convergenza e interdipendenza soft, economica e sociale innanzitutto, sviluppatasi in simbiosi con la garanzia di sicurezza transatlantica, che ha risvolti politico-strategici importanti andando a contribuire al più lungo periodo di assenza di guerre in Europa occidentale dai tempi della pax romana.
Questi anniversari ci ricordano anche che le più grandi conquiste per la pace, la sicurezza e la stabilità europea sono avvenute in un quadro multilaterale a sua volta forgiato dalle decisioni delle potenze regionali. Quando multilateralismo e leadership nazionali hanno trovato la giusta e lungimirante sintesi, a partire dalla scelta di Washington di appoggiare contestualmente la riunificazione tedesca e l’allargamento della NATO, le fondamenta gettate in modo solido hanno retto al cambio delle circostanze e delle personalità politiche.
Ovviamente non sempre multilateralismo è stato sinonimo di successo in Europa. Cinque anni fa l’UE concludeva con Kiev un accordo di libero scambio e associazione così “profondo e ampio” da rappresentare di fatto un cambio di collocazione geopolitica dell’Ucraina, senza rendersi conto di cosa ciò comportasse nel quadro strategico e di sicurezza europeo. In un Paese diviso tra chi guardava a Occidente e chi a Mosca, e con quest’ultima ben decisa a riaffermare la propria sfera di influenza sull’ex Repubblica sovietica, culla della cultura e storia russa nonché territorio geograficamente molto prossimo alla stessa Mosca, l’accordo tra Bruxelles e Kiev e la gestione dei relativi scontri di piazza offrirono al Cremlino l’opportunità per un colpo di mano militare in Crimea – in realtà a lungo preparato e ben realizzato.
La crisi in Ucraina ha segnato uno spartiacque nei rapporti tra Occidente e Russia, che negli ultimi 5 anni sono stati ben peggiori che nei precedenti 25. Se i membri di NATO e/o UE sono stati colti impreparati dalla strategia russa, sono poi riusciti a reagire in entrambe i formati multilaterali, da un lato con misure di deterrenza e difesa che hanno finora impedito analoghi colpi di mano del Cremlino dal Baltico al Mar Nero, e dall’altro con sanzioni economiche che hanno pesato sull’economia russa. Gli Stati Uniti, con Barack Obama prima e con Donald Trump poi, hanno fatto da perno della difesa alleata, realizzando il più grande rafforzamento del dispositivo militare statunitense sul suolo europeo dalla fine della Guerra Fredda, in termini di equipaggiamenti, truppe e basi militari, dalla Polonia all’Italia passando per Germania e Romania.
La continuità tra Obama e Trump quanto a impegno militare diretto di Washington nella sicurezza europea non è un caso. Nel bene e nel male, gli snodi cruciali per il Vecchio Continente nel periodo post-Guerra Fredda hanno visto un ruolo centrale del Nuovo Mondo, con gli Stati Uniti che si sono confermati una “potenza europea” quanto a interessi, coinvolgimento e impegno. Fermo restando il parziale disimpegno americano da Medio Oriente e Nord Africa e la maggiore priorità data alla competizione strategica con la Cina(elementi di continuità tra Obama e Trump, con il secondo che ha accelerato e radicalizzato la strategia intrapresa dal predecessore),Washington non ha abbandonato e non sta abbandonando l’Europa. L’interesse strategico statunitense ad un continente europeo non allineato con potenze continentali asiatiche quali Cina o Russia si è dimostrato strutturale e permanente. Tanto da controbilanciare in questa regione la spinta non-interventista e nazionalista di Trump, che si è espressa appieno con il non-impegno in Libia o Yemen, nel disimpegno da Siria e Iraq, ed nel tentativo di lasciare al più presto l’Afghanistan. Rispetto a tutte queste aree di crisi, l’Europa, in un’accezione che va dall’Atlantico al Baltico e al Mar Nero, è un’altra storia per gli Stati Uniti.
In questa storia, con il venir meno della generazione che ha avuto una memoria diretta della seconda guerra mondiale, e la graduale uscita di scena di chi ha vissuto se non combattuto la Guerra Fredda – tra cui figure simboliche come il Senatore John McCain – il rapporto transatlantico sta cambiando, e continuerà a cambiare. Cambiamento accentuato sia dalla demografia statunitense, sempre più sudamericana e asiatica, sia da quella europea con crescenti componenti africane e mediorientali. In altre parole, non ci si può aspettare come in passato una certa affinità culturale e genealogica quasi “di default” tra le elite dei due continenti, simboleggiata ancora negli anni ’90 da un potente Segretario di Stato americano quale Madeleine Albright che continuava a sentirsi una “ragazza di Praga” (sua città di nascita). Affinità passata che tuttavia non va neanche idealizzata ed esagerata, in quanto senza i flussi turistici odierni e l’avvento di internet è difficile affermare con certezza che il cittadino medio del Nebraska si sentisse 40 anni fa più vicino all’Europa di quanto si senta oggi – per non parlare delle piazze europee, ben più affollate di manifestazioni anti-americane al tempo della crisi degli euromissili di quanto lo siano state di fronte all’amministrazione Trump.
In ogni caso, i cambiamenti al vertice politico statunitense, a loro volta legati a evoluzioni della percezione dell’opinione pubblica e dell’elettorato, possono avere e hanno avuto con Trump un impatto significativo su dossier importanti quali l’accordo sul nucleare iraniano o quello sul cambiamento climatico – firmati peraltro dall’amministrazione Obama contro una forte opposizione interna. Ma non hanno avuto e difficilmente potranno avere un impatto rilevante su un caposaldo degli interessi nazionali e della sicurezza degli Stati Uniti quale la presenza politico-militare in Europa, in chiave di contenimento rispetto a Russia o Cina, istituzionalizzata nella NATO. Gli Stati Uniti rimarranno verosimilmente una “potenza europea”, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso sia per Washington che per le capitali europee.
E’ bene ricordare che, per quest’ultime, i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi. Nella competizione globale tra Stati Uniti, Cina e Russia, da parte europea non si può infatti mettere queste tre potenze sullo stesso piano, per due semplici motivi strettamente legati tra loro. Sul piano dei valori, i governi di Pechino e Mosca applicano ai propri cittadini un sistema autoritario che sarebbe inaccettabile per la stragrande maggioranza degli europei che vi si dovessero sottomettere davvero e per più tempo di una breve vacanza. Sul piano degli interessi, l’egemonia degli Stati Uniti nell’area euro-atlantica durante gli ultimi 70 anni – ricorre quest’anno anche il 70esimo anniversario della NATO – ha garantito all’Europa pace, benessere, libertà e stabilità. Non si può dire lo stesso dell’egemonia di Mosca oltre la Cortina di ferro per 40 anni, né guardando a Pechino promette bene quanto consegue dalla penetrazione cinese in Africa e altrove.
Gli anniversari della caduta del Muro di Berlino, della guerra in Kosovo, dell’allargamento e consolidamento di NATO e UE, ci ricordano che l’Europa non è solo un campo di battaglia dello scontro tra gli Stati Uniti e altre potenze mondiali, come alcuni ripetono oggi rispetto alla Cina, e non è equidistante tra le parti in causa. L’Europa è piuttosto parte di un’alleanza occidentale che costituisce l’unica scelta di campo in linea sia con i valori che con gli interessi degli europei. E per quanto difficile sia trattare con questa o quella amministrazione americana, è solo tramite tale alleanza che l’Europa può sperare di conservare pace, libertà, sicurezza e benessere nel mondo multipolare di oggi e di domani.