“Non ha senso continuare così. Non ha senso, davvero”. L’uomo che chiamerò Hadi, e che mi sta davanti stravolto, è il comandante dell’unità di al-Qaeda con cui vorrei rientrare in Siria. Ma a Khan Sheikhun, a metà strada tra Homs e Aleppo, c’è appena stato un altro attacco chimico. “Vieni subito”, mi ha detto al telefono, “è urgente”. Gira voce che molti vogliano andare via dalla guerra. Che sia il momento della resa.
Trovo Hadi nella hall di un hotel di Antakya (l’antica Antiochia, oggi città turca proprio al confine con la Siria). Lo sguardo perso. “Giuro”, mi dice, “ho tentato il possibile. Ma certe cose, alla fine, dipendono da entrambe le parti. Uno, no?, ci prova. Anche se sta franando tutto. Ma è inutile”, dice. “Hai uno, due mesi di calma: e poi tutto ricomincia. E ormai è da anni che è così. Non ha senso”. Mi guarda. “Forse sbaglio. E Dio giudicherà. Ma la priorità”, dice, “ora è il bene dei miei figli”. In effetti, dico. Ormai, qui è tutto in macerie. E quindi, dico, che avete deciso? Si accascia sul cuscino. Affranto. “Abbiamo deciso di divorziare”.
L’opposizione siriana è allo sfascio. Da quando la Russia, nell’autunno del 2015, ha iniziato a bombardare tutto e tutti, i ribelli hanno via via perso lucidità strategica e militare. Ma il colpo di grazia non è arrivato da Vladimir Putin: è arrivato dalle mogli. Perché in fondo, ‘radicalizzazione’ per le donne significa avere sposato un farmacista, un idraulico, e ora ritrovarsi in casa un jihadista. E spesso, anche un paio di altre mogli. Per noi, in Europa, è materia da sociologi e psicologi: qui si risolve a padellate in testa. Sei anni fa, Hadi era un placido tappezziere. Ascoltava Céline Dion, e i suoi due migliori amici erano alawiti. “Ma se a settembre siamo anche stati alla Mecca!”, dice adesso. “Ma che altro cerca? Ha l’elettricità! Ha l’acqua! Ha tutto”.
Anche il ragazzo che è con Hadi non è molto concentrato su Assad. Sua moglie vuole trasferirsi dalla sorella, che ha avuto asilo in una piccola città del Canada. Lui invece vuole rimanere a Idlib, l’ultimo bastione dei ribelli. O più esattamente, di al-Qaeda. Così che i figli possano crescere in un ambiente internazionale, mi dice. Dove per ‘internazionale’ intende che a Idlib ci sono jihadisti di tutto il mondo.
Gli unici che si ostinano a parlare di Siria, qui, siamo noi giornalisti. Domandiamo di Hezbollah, di Putin, di Erdogan. Di Assad. Dei profughi e dell’ONU, dell’ISIS e dei cessate il fuoco. Ma niente. I ribelli, ormai, hanno la testa altrove. Anche perché per molti è tempo di investire i guadagni di questi ultimi anni: chiedi come va, e d’istinto, non ti rispondono come va la guerra, ma come va il negozio o il ristorante che intanto hanno aperto in Qatar o in Turchia.
Eppure, la guerra è forse nei suoi giorni decisivi. Ai negoziati di Ginevra tra Bashar al-Assad e l’opposizione siriana, coordinati dall’ONU, si sono affiancati quelli di Astana, la capitale del Kazakistan, tra Iran, Russia e Turchia. E il 4 maggio sono state definite delle aree di cosiddetta de-escalation. Non solo Assad si è impegnato a sospendere anche i bombardamenti, finora esclusi dalle tregue, ma soprattutto, lungo le linee di demarcazione saranno schierati degli osservatori internazionali. Mentre a livello locale, intanto, si continuano a mediare una serie di cessate il fuoco sul modello dell’Accordo delle 4 città: quando combattenti e attivisti di Madaya e Zabadani, due città sunnite vicino Damasco, si sono arresi e trasferiti a Idlib, mentre quelli di Fuaa e Kafraya, due città sciite vicino Idlib, si sono arresi e trasferiti vicino Damasco. Sembrano tregue: ma in realtà, sono scambi di popolazione per una riorganizzazione della Siria su base confessionale. Come già in Libano, in Bosnia e in Iraq. Tre paesi in cui la guerra è finita così. Tre paesi che oggi sono alla bancarotta politica, economica e sociale.
Un tempo, i ribelli avrebbero tuonato che non è altro che il vecchio divide et impera. Ma adesso è difficile anche capire a quali interlocutori politici chiedere una dichiarazione. In teoria, l’opposizione ad Assad è ancora rappresentata dalla Coalizione Nazionale, e ha ancora sede qui, a Gaziantep, grande città turca al confine siriano: dove è stata a lungo nota per tenere i dollari destinati agli aiuti umanitari, milioni di dollari, in uno stanzino. A pacchi. Finora gli unici a illustrare un po’ più in dettaglio le sue attività sono stati due funzionari, Bassam al-Kuwatly e Mohammed Ayoub – dopo essersi licenziati. “I soldi venivano consegnati in buste di plastica”, hanno spiegato. Le buste dei supermercati. “Uno diceva: ho bisogno di 150mila dollari per questo progetto. E riceveva 150mila dollari. Senza dimostrare che fossero davvero necessari. Né, soprattutto, che fosse necessario il progetto”.
Oggi la Coalizione Nazionale è guidata da un imprenditore, Riad Seif. Uno dei dissidenti storici siriani, da sempre in prima fila contro Assad. Ma è il sesto presidente in cinque anni. Non fai in tempo a chiedere un appuntamento per un’intervista, qui, che si sono già dimessi.
Ma quando diciamo ‘i siriani’, in fondo, ormai cosa diciamo? Non solo 5 milioni di siriani sono all’estero: ma i migliori attivisti e comandanti sono stati tutti uccisi. Qui non sono rimasti che dei personaggi come un trentenne palestrato che chiamerò Adli, e che mi è stato raccomandato da un diplomatico europeo. Mi è stato descritto come ‘il nostro punto di riferimento’. Mi bacia la mano, e mi dice cavalleresco: “Ma hai degli occhi magnifici… Vali minimo 10 milioni di dollari!” – la mia quotazione come ostaggio. Prima della guerra, commerciava auto usate. Nel senso che era un contrabbandiere. “Ma ti interessano anche le rovine?”, mi chiede mentre gli spiego quali aree della Siria vorrei raggiungere. No, dico. Preferirei incontrare persone. “Comunque, in caso”, mi dice, “ho degli ottimi pezzi da Apamea”. Pezzi di tombe romane.
Sono questi, ormai, i nostri ‘siriani’. I siriani attraverso cui tentiamo di capire la Siria. Come se degli arabi provassero a capire l’Italia attraverso degli spacciatori di Scampia.
Donald Trump ha sospeso il programma della CIA, che per un paio di anni ha addestrato, equipaggiato e variamente finanziato gli ultimi avanzi del vecchio Esercito Libero, cioè l’armata dell’opposizione siriana laica, la prima a prendere le armi contro Assad. Sostanzialmente, gli unici che ancora combattono sono i jihadisti di Ha’yat Tahrir al-Sham. E cioè di al-Qaeda. Di Jabhat al-Nusra. Quando è intervenuta la Russia, infatti, e i ribelli hanno iniziato a perdere terreno, Jabhat al-Nusra si è staccata formalmente da al-Qaeda per tentare di costituire un’alleanza il più ampia e unita possibile, ed è diventata Jabhat Fatah al-Sham. Quando poi Aleppo, distrutta, è tornata nelle mani di Assad, Jabhat Fatah al-Sham è diventata a sua volta, appunto, Ha’yat Tahrir al-Sham, attraverso la fusione con le altre principali milizie.
Sono rimasti fuori dall’alleanza solo i jihadisti dell’Ahrar al-Sham, che è invece sostenuta dalla Turchia, e quindi è fuori, al fondo, dall’orbita di al-Qaeda. L’Ahrar al-Sham ha sempre combattuto esclusivamente in Siria e per la Siria. Ma soprattutto, proprio perché ha alle spalle la Turchia, ha sempre controllato il grande posto di confine di Bab al-Hawa, centro del contrabbando: ed è per questo, più che per ragioni ideologiche, che è finita nel mirino di Ha’yat Tahrir al-Sham. E in poche settimane è stata spazzata via. Con una vittoria che in realtà, potrebbe presto rivelarsi una sconfitta: perché a differenza dell’Ahrar al-Sham, che è anche parte dei negoziati di Ginevra, Ha’yat Tahrir al-Sham è classificata come un’organizzazione terroristica. E quindi è esclusa dal cessate il fuoco. Per Idlib, l’Ahrar al-Sham era una specie di scudo: Assad, ora, può bombardarla liberamente. Cancellarla come Aleppo. Magari quando avrà finito di concentrare lì tutti i suoi oppositori.
Potrebbe sembrare, se non altro, una fine a questa guerra. Una fine per logoramento. Il problema però è che il potere di Assad non è affatto solido come sembra. Quello che definiamo ‘esercito di Assad’ è in realtà un precario agglomerato di aerei russi, miliziani di Hezbollah, miliziani iraniani, mercenari di ogni tipo. Sono tutti stranieri: e a un certo punto andranno via. Mentre l’economia, intanto, è ormai un’economia di affaristi come Abu Ayman al-Manfush, il padrone di Ghouta, una città sotto assedio da anni, in cui si è registrato uno dei più alti tassi di morte per fame: ma Abu Ayman al-Manfush fa tranquillamente avanti e indietro con i suoi camion. Vende cibo e gasolio. E guadagna circa 10mila euro al giorno: a Ghouta un chilo di riso costa 18 euro. Abu Ayman al-Manfush non è un uomo del regime: a Ghouta, è il regime.
E di là dal fronte è la stessa cosa. Perché i ribelli non hanno vinto, è vero. Ma non hanno perso: possono sempre impedire ad Assad di governare. Passeremo alla guerriglia, dice Hadi. “D’altra parte, che alternative ho?”, dice. Un tempo avrebbe detto: verrei ucciso da Assad. Ora mi dice: “Ho comprato una palazzina qui ad Antakya. Come finisco di pagarla?”