Tra revanscismo russo e progressivo allargamento della NATO si è – non da oggi – innescato un pericoloso circolo vizioso. E‘ utile dunque guardare a questa dinamica anche dalla prospettiva russa, senza per questo voler dare valutazioni ispirate a una sorta di equidistanza.
L’ingresso della Finlandia nell’Alleanza Atlantica, con il corollario della prevedibile reazione russa (minaccia di “contromisure”), pone un interrogativo: l’abbandono della neutralità rafforza davvero la sicurezza di quel paese? O potrebbe rivelarsi una self-fulfilling prophecy, in quanto acuisce la fobia russa dell’accerchiamento? In altre parole, alla luce di quanto è successo dal febbraio 2022 dobbiamo considerare tutti i Paesi vicini esposti alle mire espansionistiche di Mosca?
Evidentemente a Helsinki (e anche a Stoccolma, vista l’identica richiesta svedese) lo si ritiene probabile o comunque non lo si esclude, e allora per andare sul sicuro si è preferito mettersi sotto l’ombrello americano, a costo di provocare le ire del Cremlino. Ma di per sè l’aggressione all’Ucraina non dimostra la tesi di un generico istinto espansionistico dell’odierna Federazione Russa, analogo a quello della Germania hitleriana. Indica piuttosto che quello di Putin è un disegno revisionistico e revanscistico.
Quest’ultimo aspetto (riparazione di una presunta ingiustizia) è stato a lungo sottovalutato da chi ha guidato le strategie dell’Alleanza, e nei dibattiti sulla guerra in corso è stato per lo più derubricato ad argomentazione tendenziosa dei Putin-Versteher. Ma chi ha seguito la politica estera moscovita negli ultimi vent‘anni sa bene quanto conti nella mentalità di Putin (ma anche di gran parte dei suoi concittadini) la volontà di rivincita contro un Occidente che si proclama vincitore della Guerra fredda, si attribuisce una superiorità morale e umilia la Russia circondandola.
Che questa non sia una ossessione personale di Putin lo dimostra il fatto che è sostanzialmente condivisa dalla dirigenza cinese e vista con comprensione dagli altri BRICS e numerosi paesi non allineati.
Lo spirito di rivincita, e in particolare la pretesa di essere trattato da pari a pari dagli Stati Uniti e di vedersi riconosciuta una propria sfera di influenza è stato il fattore preminente che ha guidato la politica di Mosca sulla questione ucraina almeno fino al 2013: sostegno a Viktor Yanukovich (il presidente ucraino considerato filorusso), risentimento per la “rivoluzione arancione” contro di lui appoggiata dagli americani (2004), protesta per il progetto USA (2008) di fare entrare l’Ucraina e la Georgia nella NATO, pressioni su Kiev per annullare l’accordo di associazione con l’UE (2013).
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Il revisionismo territoriale è entrato in scena da protagonista nel 2014 con l’annessione della Crimea e l’appoggio ai secessionisti di Donetsk e Lugansk. Ma non è stato il passaggio a lungo pianificato ad una strategia di espansione, come nel caso del Terzo Reich, bensì un’occasione storica offerta dalla rivoluzione a Kiev (con l’innegabile emergere di forze nazionaliste anti-russe), occasione che Putin non ha esitato a cogliere. È negli anni successivi che è maturato un disegno revisionista nei confronti dell’Ucraina, culminato nel famoso articolo a firma Putin del luglio 2021 (che negava l’identità di quel popolo) e il piano di invasione.
Fallito un anno fa (almeno temporaneamente) l’obiettivo di ridurre l’intera Ucraina allo status di vassallo, Mosca ha ripiegato sull‘annessione delle quattro regioni orientali (attualmente solo in parte occupate). Ma è chiaro che anche una cessazione delle ostilità su questa base sarebbe solo una sistemazione temporanea. Putin non tollererà a lungo una Ucraina indipendente (sia pure amputata di un quinto o un quarto del suo territorio) fermamente ancorata nello schieramento occidentale.
Il revisionismo territoriale è ora dunque in primo piano, a spese dell’aspirazione a riequilibrare l’ordine europeo, allontanando dalle proprie frontiere la NATO, e facendo della Russia una potenza rispettata cui venga di fatto riconosciuta una sia pur limitata sfera di influenza. Da questo punto di vista la guerra è stata controproducente.
Se Putin è ormai orientato a mettere tutte le risorse umane e materiali della Russia al servizio di un programma di revisionismo territoriale, ci si deve domandare quale ne sia la portata. Certamente vi rientrano l’Ucraina e la Bielorussia, considerate parti integranti della nazione russa, o “russkij mir“. Un passo ulteriore coinvolgerebbe i paesi in cui vivono consistenti minoranze russe (scenario Sudeti): a quel punto dovrebbero preoccuparsi (in realtà già sembrano preoccupati) i paesi baltici (e dunque di riflesso gli scandinavi?), la Moldavia e il Kazakhstan. Solo nell’ipotesi estrema di un piano di ricostituzione dell’impero zarista sarebbero sotto minaccia anche la Finlandia, le repubbliche caucasiche a cominciare dalla Georgia, e persino la Polonia.
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Quale di queste varianti del revisionismo verrà perseguita può solo essere oggetto di speculazione. Tanto più che nel corso della guerra tendono a spostarsi in avanti i paletti, per effetto dell’inasprimento del rancore verso i paesi NATO, la retorica della ripresa della “grande guerra patriottica” per giustificare le centinaia di migliaia di caduti, il rinsaldarsi della solidarietà russo-cinese in funzione anti-occidentale. Molto dipenderà dall’esito della guerra, che potrà indurre Mosca a più miti consigli, o invece imbaldanzirla.
È dunque comprensibile che paesi confinanti con la Russia o comunque vicini cerchino protezione nella NATO contro minacce non attuali ma ipotizzabili in futuro. Non si deve però sottovalutare l’inasprimento della guerra fredda che ne deriverà.