Inizio da un paradosso: come sempre o quasi nella storia parlamentare europea, le prossime elezioni vengono dichiarate da tanti come le più importanti di sempre. Per motivare gli elettori, da che mondo è mondo, dagli Stati Uniti all’India passando per l’Europa, le “prossime” elezioni sono quelle decisive, almeno fino alle successive. Eppure, proprio a quarant’anni dalla prima elezione a suffragio elettorale diretto del Parlamento europeo, l’equilibrio della costruzione europea stavolta sembra essere davvero in bilico.
A fronte della dichiarata ostilità al progetto europeo da parte di non pochi partiti in diversi paesi, potrebbe essere fatale cadere in un eccesso di fiducia sulla nostra capacità di resilienza come democrazia sovranazionale. Lo studioso britannico David Runciman, in un libro del 2012, ha descritto “la trappola della fiducia” (The Confidence Trap) come una grande incognita per il nostro futuro. Si può semmai discutere se questa trappola possa scattare in occasione delle elezioni europee – che per definizione mettono insieme un mosaico vasto e articolato di risultati nazionali, tale da rendere meno probabili dei totali ribaltamenti degli equilibri esistenti – o quando vi saranno rilevanti appuntamenti al livello delle future elezioni nazionali in alcuni stati chiave dell’Unione. Si tratta di Stati membri, e qui viene facile pensare in primo luogo a Francia e Italia, in grado di incidere massicciamente sugli equilibri politici e economici europei.
Tra i contestatori delle politiche europee vi sono non pochi contestatori dell’utilità stessa di avere delle istituzioni comuni. Le democrazie europee affrontano un’ennesima prova di capacità d’inclusione, di accogliere e moderare le richieste di un cambiamento radicale. Comunque sia le elezioni di maggio sono un banco di prova per tutti da questo punto di vista. È interessante notare intanto come la contestazione euroscettica in alcuni paesi alterni toni distruttivi con la richiesta, apparentemente più moderata, di una trasformazione dell’Unione Europea in una “nuova Europa”, diversa dall’esistente, che si proclama però essere diversa dalla fine dell’idea stessa di Europa. Non è detto che questo sia un esempio di quella capacità di inclusione e di resilienza da parte delle istituzioni democratiche europee alla quale ho fatto accenno prima. Ma è lecito sperare, pur senza farsi illusioni, che almeno alcuni leader della contestazione antieuropea abbiano capito che non si può andare oltre un certo limite, pena perdere del consenso.
Va detto chiaramente che il sistema politico europeo non è lo specchio fedele dei sistemi politici nazionali. Dal dopoguerra questi hanno seguito linee diverse di sviluppo: dai ceppi iniziali tra cui la famiglia democristiana e i conservatori; sinistra laburista, socialdemocratica, socialista e sinistra comunista; liberali e partiti laici, la destra vera e propria, i i vari partiti di nazionalità substatali e/o confessionali, fino poi all’emergere (con una prima spinta propulsiva dopo il 1968 e poi ancora una seconda dopo il 1989) di movimenti e partiti di tipo nuovo, ecologisti e sinistra radicale, ma anche movimenti localistici, territoriali e civici; xenofobi; anti-establishment.
Su queste basi nazionali, la ricomposizione a livello europeo ha seguito percorsi a volte originali, essenzialmente a causa delle regole interne al Parlamento europeo quanto alla composizione dei gruppi come espressione di eletti provenienti da un numero via via crescente di paesi. In alcuni casi, e soprattutto in conseguenza dell’allargamento, alcune configurazioni parlamentari si sono costituite come una pura alleanza di opportunità tra soggetti non affini o debolmente affini da un punto di vista non solo programmatico ma persino identitario. L’attuale Parlamento ha una governance interna più complicata che in passato in conseguenza della sua stessa crescita.
LE PROSPETTIVE DEL VOTO DI MAGGIO. La prima incertezza rispetto agli scenari dopo il 26 maggio deriva dal tasso di partecipazione, fattore decisivo per spostare in misura consistente gli equilibri interni al futuro Parlamento. Come noto, si è quasi fermato il declino della partecipazione al voto in occasione delle ultime elezioni, nel 2014, ma il trend storico in negativo ha avuto una forte accelerazione dopo che specialmente in alcuni paesi dell’Europa centrale e orientale si sono registrati dei livelli di partecipazione bassissima.
Meno incertezza vi è rispetto a un altro trend di durata ormai lunga, cioè l’indebolimento delle forze principali della politica europea: la famiglia popolare e quella socialista democratica. Negli anni Novanta, l’egemonia parlamentare democristiana aveva trovato nell’allargamento a nuove forze – il Partido Popular spagnolo e Forza Italia – le risorse per contrastare la ripresa progressista in Europa nella stagione dei governi di centrosinistra. L’egemonia politica del Partito popolare europeo (PPE) negli anni successivi si è consolidata, mantenendo la primazia all’interno del Parlamento, e riconquistando gradualmente la maggioranza a livello nazionale in un numero sufficiente di paesi per diventare la forza centrale anche nel Consiglio Europeo.
La famiglia socialista e democratica ha finito per perdere alcuni pezzi. Al suo interno la delegazione italiana è rimasta comunque la più numerosa. Un dato che non era scontato, viste le trasformazioni e le divisioni interne del principale partito della sinistra italiana, relative alla sua stessa identità politica oltre che alla sua collocazione a livello europeo. Ma il dato che più costituisce un punto di domanda per il futuro del gruppo Socialisti e Democratici (SD) è l’implosione del Partito socialista francese da un lato, e l’inarrestabile emorragia dei socialdemocratici tedeschi dall’altro. La SPD affronta le elezioni europee con la prospettiva di perdere drammaticamente peso nel sistema politico tedesco, sfidata da un lato dai Verdi come potenziale partner di governo dei democristiani e come forza emergente, e dall’altro dalla destra antieuropea di AfD (la cui crescita sembra essersi fermata ma nei sondaggi ma che è molto vicina ai numeri dei socialdemocratici). La prospettiva del doppio sorpasso ai suoi danni mette gli eredi di Brandt e Schmidt potenzialmente di fronte a scelte dirimenti sul loro futuro. E con esse, è il futuro del gruppo SD al Parlamento europeo a poter essere fortemente condizionato.
PPE e SD dunque sono dati in calo, più forte nel caso dei progressisti. Ciò nonostante, le possibilità dei due gruppi di mantenere le loro posizioni dominanti sono legate, per così dire, proprio al loro carattere europeo. Infatti, rappresentano più degli altri gruppi (e questo pesa soprattutto per il gruppo SD) movimenti e partiti presenti in tutti o quasi i 27 Stati membri. Tale caratteristica lascia ai due gruppi storici dei margini, vedremo quanto sufficienti, per tenere a distanza altri gruppi: questi potranno probabilmente festeggiare buoni risultati in alcuni Stati membri, ma complessivamente avranno difficoltà a cambiare i rapporti di forza nell’emiciclo di Strasburgo.
Due importanti note di cautela vanno qui espresse. La prima riguarda la volatilità crescente dell’elettorato, e la possibilità che più che quanto prevedono i sondaggi anche queste “elezioni più importanti di sempre” vedano un numero importante di persone utilizzare l’appuntamento delle europee per dare un forte segnale nei confronti dei governi, che spesso è di approvazione per governi in carica da poco e di contestazione dei governi in carica da più tempo. Le variabili, anche per questo, sono numerose.
L’altro fattore di cautela rispetto al mantenimento di Popolari e Socialisti della loro posizione centrale riguarda l’eventualità di un rimescolamento della composizione dei gruppi o di alcuni di loro, a seguito dei risultati delle europee. Da questo punto di vista la variabile più importante è quella della collocazione degli eletti del partito di Emmanuel Macron, En Marche, probabilmente in alleanza con il gruppo liberale (ALDE), ma comunque alla ricerca di una ricomposizione più ampia e di nuove dinamiche. Gli italiani in questo contesto sono una variabile interessante sia per le posizioni di partenza (la fluidità delle culture politiche) sia per le caratteristiche del nostro sistema elettorale (le preferenze aumentano il grado di autonomia degli eletti, in particolare in un quadro di sostanziale debolezza delle strutture di partito).
Non è escluso che alcuni eletti possano essere attratti dalla dinamica che Macron potrebbe alimentare specialmente se non avrà un risultato così negativo come alcuni sondaggi gli hanno attribuito e che possano spingere per modificare gli assetti attuali dei gruppi parlamentari puntando a un più ampio rimescolamento, al momento però non chiaro. Naturalmente questo dipenderà anche dalle scelte che saranno compiute nella fase di composizione delle liste in particolare da parte della nuova dirigenza del PD. In teoria, la componente italiana potrebbe mantenere, se resterà unita una centralità relativa nel nuovo gruppo SD a causa della debolezza delle altre componenti (nonostante il quasi certo ridimensionamento rispetto al risultato straordinario delle elezioni del 2014). Le delegazioni italiana, romena e spagnola potrebbero essere le più consistenti dopo o prima quella tedesca, a meno di una rinascita altamente improbabile di quella francese.
Più solida, seppure anche essa però in sostanziale declino, appare la posizione del gruppo dei popolari europei, trainati dai democristiani tedeschi. Lo stesso PPE ha non pochi problemi al suo interno, sia di linea politica (la diversificazione interna continua a crescere su alcune questioni dirimenti e in alcuni casi in maniera tale da mettere in dubbio la tenuta stessa della famiglia politica, in particolare rispetto al tema della migrazione) che di equilibri e rappresentatività geografica. Le componenti nazionali nei principali paesi sono in evidente difficoltà, anche perché la transizione di leadership (rispettivamente post Sarkozy, Aznar-Rajoy e Berlusconi) non è stata tale da garantire, almeno per ora, prospettive rosee e assicurate di sviluppo.
In particolare, l’Italia rischia di essere stavolta fortemente indebolita nella sua rappresentanza all’interno del principale gruppo europeo, nonostante il peso istituzionale di Antonio Tajani come presidente uscente del Parlamento. Anche in questo caso, le variabili sono numerose e dipendenti dalle scelte politiche che verranno compiute. Sul piano teorico, potrebbe ipotizzarsi un avvicinamento della Lega (che in alcuni sondaggi a livello europeo viene contata come seconda delegazione nazionale in tutto il Parlamento europeo) al PPE, o una sua confederazione con esso a livello di gruppo parlamentare ma non di partito politico. Ma la scelta radicale della leadership attuale leghista di fare asse con l’estremismo francese lepenista forse persino più che con le componenti euroscettiche ungheresi e polacche già all’interno del PPE stesso, rendono questo scenario ipotetico impossibile a meno di repentine svolte.
I Liberali possono legittimamente sperare in una crescita della propria rappresentanza parlamentare, così come hanno visto crescere la loro forza all’interno del Consiglio dei ministri e a livello di capi di Stato e di governo. Il gruppo ALDE nelle ultime legislature ha sofferto, in termini di peso relativo, per il mancato ingresso in Parlamento prima dei liberali tedeschi, poi di quelli britannici, oltre che per una sostanziale debolezza in diversi Stati membri. Come detto, le possibilità di un nuovo slancio dipendono essenzialmente dalla possibilità di includere i macronisti, ovvero di trovare un equilibrio tra la leadership di Macron e altre figure più tradizionali. Il gruppo ALDE infatti comprende sensibilità variegate su vari fronti, in particolare sull’equilibrio diritti collettivi/libertà individuale e rispetto al futuro delle istituzioni europee. Difficile da questo punto di vista prevedere una sintesi tra Macron e i Liberali tedeschi, che si apprestano a tornare con una rappresentanza parlamentare significativa sebbene limitata, o con altre forze dei paesi nordici in particolare. Si può dire che il più evidente fattore di debolezza per Macron è l’assenza di un referente partitico politico stabile in Germania. La novità macronista complessivamente non è l’unica variabile determinante per la forza e la dinamica dei liberaldemocratici.
La famiglia verde è quella che forse si avvicina alle elezioni europee con maggiore ottimismo, visti gli straordinari sondaggi che gli ecologisti hanno in Germania. I verdi sembrano poter scalzare i socialdemocratici dal secondo posto in Germania e iniziare a porre le condizioni per una svolta nel paese, come partner di governo a livello federale e senza nascondere le loro ambizioni. Anche in questo caso però, le variabili sono molte. Una riguarda quanto la nuova presidente del partito democristiano, Annegrette Kramp-Karrembauer, di fatto in piena continuità con il centrismo della cancelliera Angela Merkel (seppure impegnata a difendere la candidatura del più conservatore Manfred Weber alla presidenza della Commissione), sarà capace di contenere la crescita impetuosa dei verdi. Al netto delle speranze degli ecologisti in Germania, non è detto che il gruppo a livello europeo sia in grado di mutare drasticamente i rapporti di forza a suo favore: il motivo è che altre componenti nazionali, alcune delle quali più di sinistra che puramente ecologiste, sono date in calo. Le possibilità dei verdi di avere una maggiore influenza nel prossimo Parlamento europeo dipendono dunque anche dalla capacità di aggregare altre forze, in uscita da altri gruppi o di nuova entrata. Quanto questo sarà possibile (mantenendo una certa coerenza nella gestione politica del gruppo) è un punto di domanda.
UN QUADRO PIÙ DINAMICO CHE IN PASSATO. In realtà, vi sono caratteristiche trasversali e generali al di là delle specificità nazionali: la difficile governabilità dei gruppi parlamentari, la graduale crescita di peso delle delegazioni nazionali al loro interno, una diffusa varietà di orientamenti interni ai gruppi. Questi tratti sono solo in parte compensati dal lavoro ormai molto strutturato di coordinamento e dalle procedure interne; peraltro, ciò ha appesantito le strutture amministrative, spesso a scapito dell’innovazione e di una snella capacità di azione politica. Al contempo, va sottolineato che la capacità di ogni famiglia politica di avere consenso in ogni paese dell’Unione Europea costituisce un fattore di successo spesso trascurato, ovvero oscurato dai successi in singoli paesi. Il punto chiave è questo: vince chi è forte nei paesi più grandi ma è al contempo presente ovunque, o quasi.
Un punto di domanda riguarda anche da questo punto di vista il futuro del gruppo della sinistra unitaria e della sinistra verde nordica (GUE), che raccoglie varie forze radicali di sinistra dell’Europa meridionale e settentrionale e che attualmente ha una rappresentanza parlamentare di poco superiore a quella dei Verdi, con al suo interno una diversificazione tra posizioni ultrafederaliste ed euroscettiche.
Di fatto, l’avvicinamento ormai consolidato tra il partito di Alexis Tsipras (o almeno la sua leadership) e il PSE prospetta una evoluzione di segno opposto rispetto a quella rappresentata da Jean-Luc Mélenchon in Francia come portabandiera di una sinistra più nazionale che internazionalista nella retorica di fondo.
Arriviamo così alla ricomposizione possibile che avverrà sul fronte dei gruppi più marcatamente euroscettici e di altre rappresentanze che in sostanza uniscono movimenti e partiti minoritari. Se Brexit avrà l’epilogo di una vera e propria uscita dalle istituzioni – con le relative modifiche nella composizione del Parlamento europeo – l’uscita di scena della consistente delegazione del partito antieuropeo UKIP sottrae forze determinanti per un forte gruppo euroscettico. D’altro canto, l’ingresso degli antieuropei tedeschi di AfD e il loro possibile abbraccio con i lepenisti francesi, e forse con la Lega italiana, potrebbe costituire un polo parlamentare di notevole peso.
Sarà anche e soprattutto per questo un Parlamento europeo diverso quindi, con le tradizionali forze proeuropee in calo, frammentate al loro interno e con diverse necessità di riaggregarsi e trovare una sintesi programmatica. E ci saranno scelte impegnative da fare sulle personalità alla guida del Parlamento europeo prima, e della Commissione poi. Brexit sottrarrà i non pochi deputati laburisti al gruppo SD (resta da vedere se migliorerà la coesione interna al gruppo sui temi che riguardano il futuro delle istituzioni e il ruolo dell’UE), e al contempo ridurrà lo spazio tra il PPE e la sua destra, ovvero favorirà nuove riaggregazioni.
Su questo secondo punto, va ricordato che nella legislatura ancora in corso il gruppo dei Conservatori e Riformisti (ECR) guidato dai conservatori inglesi usciti dal gruppo del PPE è arrivato a soppiantare l’ALDE come terzo gruppo parlamentare (essendo l’ALDE rimasto privo della componente britannica LibDem). Questo gruppo, con Brexit, potrebbe polverizzarsi. Assai incerto è anche il destino del più piccolo ma comunque rilevante gruppo “Europa della libertà e della democrazia diretta” (EFD), che mette insieme il Movimento 5 Stelle con gli antieuropei di UKIP e di AfD. In sostanza, a destra del gruppo del PPE può esserci un massiccio rimescolamento di carte: un polo antieuropeo potrebbe avere numeri elevati, a condizione di tenere insieme diversi nazionalismi, ma non è detto che questo abbia maggiori possibilità di influenzare l’agenda parlamentare di quanto sia oggi. Potrà avere maggiore rilevanza però la sua retorica politica e il suo impatto sul clima generale a Strasburgo e sui media.
Il Movimento 5 Stelle pare destinato a vagare in uno spazio vuoto a livello parlamentare, tra alleanze di convenienza con gruppi nazionalistici e la possibilità di costituire un nucleo anti-establishment se il movimento dei gilets jaunes entrerà al Parlamento e se insieme con esso sarà attrarre un numero sufficiente di parlamentari di altri paesi e di altre tendenze. In alternativa, potrà provare a agganciarsi come alleato confederato a quei gruppi che mancano di una componente italiana integrata, e che possano guardare più ai numeri che i 5 Stelle potranno offrire che alle posizioni che essi hanno rappresentato al Parlamento europeo in questi anni su un numero rilevante di temi.
Le evoluzioni dei gruppi parlamentari si legheranno ad altre dinamiche di fondo. La prima è legata al meccanismo del cosiddetto Spitzenkandidat, che ha rappresentato una novità alle ultime elezioni europee sulla base di un asse di ferro tra i due principali contendenti, Martin Schulz e Jean-Claude Juncker, che non è riprodotto stavolta tra Frans Timmermans e Manfred Weber, rispettivamente candidati da SD e PPE. Dell’indicazione di un candidato di punta in definitiva sono meno convinti che in passato diversi esponenti all’interno delle stesse famiglie politiche; sicuramente è contrario un key player come Macron, allo stato attuale privo di famiglia politica europea. La coalizione di fatto tra popolari e socialisti in questo caso sembra riproporsi non intorno all’idea di far guidare la Commissione da chi è risultato primo, ma all’idea che il compromesso sulla persona e sul programma debba essere trovato in primo luogo tra le famiglie politiche stesse. Paradossalmente questo, su un piano teorico almeno, potrebbe dare maggiore centralità al Parlamento europeo stesso, se esso fosse però capace di far maturare al suo interno un orientamento che incida su quello che emergerà in sede di Consiglio europeo.
Di sicuro i futuri gruppi parlamentari si uniranno o divideranno intorno ad alcune questioni cruciali per lo sviluppo dei prossimi decenni. Alcune questioni toccheranno trasversalmente le forze parlamentari, come già è stato in questi anni, rovesciando vari schemi tradizionali. Si è visto come il tema degli accordi commerciali con altre aree del mondo sia già stato dirompente, e probabilmente continuerà a esserlo.
Si possono indicare due funzioni che l’Unione ha acquisito gradualmente e che possono essere messe in discussione, con scenari opposti, e cioè di ulteriore sviluppo o di regressione. Una è la capacità regolatoria a fronte di entità economiche non statali e globali; se vogliamo, semplicemente a fronte della realtà dell’economia contemporanea. Oltre all’azione regolamentare complessiva, si pensi qui alle politiche della concorrenza e degli aiuti di stato, che costringono a un confronto con soggetti sia interni che esterni all’Unione Europea. La seconda funzione è il controllo democratico, la decisione su chi lo esercita e quando, in riferimento al governo dell’euro e dell’economia europea e in riferimento alla politica estera.
Sullo sfondo infine, ma sempre presente come questione esistenziale per lo stesso Parlamento europeo, vi è la prospettiva che l’Unione Europea resti uno spazio di diritti condivisi e comuni, oppure si sviluppi in una Unione di Stati, con meno possibilità di “interferenze” proprio sul terreno dei diritti. È un tema che ha già creato tensioni anche nel Parlamento, perché in definitiva gli europei non hanno ancora deciso cosa debbano essere le loro istituzioni.