Alcuni pensano che aleggi intorno alle nostre democrazie occidentali un profumo che ci riporta all’inizio, o addirittura agli anni ’30, del secolo scorso. In effetti, gli indicatori non mancano. In particolare, una frattura sociale che all’epoca era legata alle conseguenze della rivoluzione industriale e oggi deriva dagli effetti della globalizzazione e soprattutto dalla difficoltà ad adottare risposte adatte al tumultuoso cambiamento tecnologico in atto. La pandemia ha ovviamente aggravato la situazione, facendo aumentare le disuguaglianze economiche, sociali e anche sanitarie.
Anche se la capacità delle democrazie di far fronte a crisi economiche e fratture sociali è oggi incomparabilmente superiore a un secolo fa, in molti paesi l’adesione ai principi della democrazia liberale e delle sue istituzioni si è pericolosamente affievolito. Movimenti populisti, nazionalisti e antisistema sono nati un po’ ovunque e in alcuni casi sono arrivati al governo; c’è addirittura chi pensa che siano in pericolo i due paesi che storicamente possono essere considerati il “cuore” dell’occidente: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Il paradosso è che l’avanzata del populismo in America non sembra aumentarne il prestigio, in realtà ai minimi storici, nemmeno presso i populisti nostrani; ne approfitta invece il fascino esercitato da autocrati come Putin, Erdogan, Orban o Xi che sfidano apertamente la “decadenza e l’inefficienza” delle democrazie. Notiamo anche, oggi come allora, un grado elevato di permeabilità e contiguità fra le pulsioni antisistema dell’estrema destra e della sinistra radicale. Assistiamo infine a un ritorno di nazionalismo; le istituzioni multilaterali create nel secondo dopoguerra sono ovunque indebolite.
Le analogie sono quindi innegabili. Ciò può sembrare paradossale poiché il nostro stile di vita, livello di prosperità, di libertà e di giustizia sono senza precedenti nella storia dell’umanità e costituiscono ancora un modello per il mondo intero. Si potrebbe estendere a tutto l’occidente ciò che si dice della Francia: un popolo che vive in Paradiso convinto di essere all’Inferno. Nulla ci può del resto spingere a pensare che i nemici della democrazia siano vicini alla vittoria. Non successe allora, non vi è ragione perché succeda oggi. Ciò che più conta è che, anche quando sembra elettoralmente in declino, l’assalto populista sta condizionando l’intero dibattito politico. Il parallelo con gli anni ’30 non deve peraltro spingerci al troppo facile riferimento al fascismo. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma il pericolo è reale anche se di natura diversa e non lo si può ignorare.
Attorno alla metà del secolo scorso, dopo la vittoria delle democrazie sulle dittature in Occidente, furono prese un certo numero di decisioni per curare i mali che avevano condotto alla crisi della democrazia. Le istituzioni furono consolidate con l’estensione del suffragio universale. Alla frattura sociale fu risposto con la creazione di un welfare state più o meno esteso. Al nazionalismo fu contrapposto un sistema internazionale multilaterale e, in Europa, sovranazionale. Cosa dovrà essere fatto per far fronte a questa nuova crisi è un problema aperto; intanto, è utile analizzare un fenomeno in gran parte nuovo e che non ha chiari precedenti nel secolo scorso.
Assistiamo infatti in Occidente a un dilagante movimento “libertario” che promuove apertamente il rifiuto di qualsiasi regola e delle istituzioni che le emanano. Alcuni ne vedono le origini culturali nella rivoluzione dei costumi degli anni ’60 (interdit d’interdire), ma temo che ciò ci porterebbe troppo lontano. Un’origine più vicina e concreta è quella dei tea parties americani. Il movimento francese dei gilets jaunes, prima di assumere la caratteristica di un rifiuto totale del sistema, è nato come rivendicazione di un “diritto”, quello di usare la propria automobile, e dal rifiuto di misure che lo rendevano troppo oneroso. La manifestazione più dirompente è comunque la diffusa ribellione, in nome delle libertà individuali, contro qualsiasi restrizione legata al controllo dell’epidemia di Covid-19; è la guerra mondiale contro la mascherina.
Tutto ciò contrasta con l’elevato grado di disciplina collettiva di fronte all’epidemia visibile nelle democrazie asiatiche. Sappiamo che l’attaccamento alle libertà individuali è un pilastro dei nostri valori. È anche vero che c’è sempre stata in Occidente una cultura libertaria intollerante di ogni costrizione, persino con punte anarchiche, ma i fenomeni attuali sono troppo diffusi per sottovalutarne gli effetti. Colpisce del resto il carattere non omogeneo di questi comportamenti di fronte alle restrizioni imposte dai pubblici poteri per far fronte all’epidemia.
Al momento opportuno sarà interessante studiare le reazioni molto diverse in paesi peraltro simili come la Svezia o la Danimarca; oppure fra paesi culturalmente abbastanza vicini come l’Italia, la Francia e la Spagna. Sono differenze nel grado di rifiuto delle costrizioni che sicuramente dipendono da come hanno agito i pubblici poteri e dalla loro popolarità, ma che probabilmente hanno anche origini più profonde.
Al fine di questa analisi sono però importanti soprattutto gli aspetti più estremi e patologici del fenomeno che descriviamo. Sono importanti perché, anche quando sono numericamente minoritari, riescono tuttavia a influenzare il dibattito e i comportamenti di molti.
Si potrebbe pensare che siamo di fronte a una coda culturale e sociale del neo-liberismo economico iniziato negli anni ’70 con la “scuola di Chicago”, che dovrebbe quindi essere antinomico a una spinta populista tendenzialmente autoritaria. Non è così. Il neo-liberismo, che peraltro ha avuto una diffusione limitata in Europa continentale, è una manifestazione del pendolo periodico che accompagna l’evoluzione del sistema capitalista e dell’economia di mercato. Il movimento libertario a cui assistiamo oggi, non si limita a contestare le imposte giudicate eccessive o le regole che a torto o a ragione sono accusate di frenare lo sviluppo economico. Esso è apertamente anticapitalista ed è nutrito dalla convinzione che le regole di cui si contesta l’esistenza, comprese quelle per contrastare l’epidemia, sono il frutto di un complotto internazionale di cui fanno parte le nostre élites politiche, scientifiche ed economiche.
Il nemico, più ancora che le istituzioni, sono dunque le élites e soprattutto gli stranieri e le multinazionali. Se guardiamo al caso degli Stati Uniti, esistono da sempre nella democrazia americana diversi filoni ideali. La contrapposizione fra Thomas Jefferson e Alexander Hamilton esprimeva anche il sogno di una repubblica di piccoli proprietari individualisti e gelosi della propria libertà di fronte al crescente potere della potenza finanziaria e presto industriale rappresentata da New York e dietro di cui si celava l’incombente capitalismo del vecchio padrone coloniale. I tea parties possono essere descritti come un tentativo di rinascita del sogno individualista, ma nel contesto del capitalismo moderno hanno un chiaro senso eversivo. Ovviamente Jefferson si rivolterebbe nella tomba di fronte a questo sacrilego accostamento, ma i tea parties pretendono di richiamarsi a quella tradizione. In Europa, se dobbiamo cercare riferimenti storici lontani, essi forse si trovano nei movimenti nihilisti della fine dell’Ottocento. La forma più compiuta del fenomeno è oggi il movimento “QAnon”, nato in America ma che si sta diffondendo in Europa.
La convergenza di questo libertarismo con l’autoritarismo dei movimenti populisti è quindi evidente e dovrebbe preoccuparci. I legami sono molteplici e non si limitano al rifiuto del “sistema”. In Europa come in America, le connessioni con i movimenti di estrema destra, compresi i suprematisti bianchi sono sempre più evidenti. I gilets jaunes, corteggiati dall’estrema destra e dall’estrema sinistra, sono stati a lungo un fenomeno quasi esclusivamente “bianco”. Un intellettuale francese come Michel Onfray, icona di molti libertari, può ormai essere tranquillamente catalogato fra i sostenitori dell’estrema destra. In Europa come in America, i nuovi libertari non esitano a fare appello e anche ricorso alla violenza.
Infine, il messaggio libertario che si diffonde soprattutto attraverso i social media, è molto spesso amplificato da quelle stesse reti internazionali, russe ma non solo, che alimentano il messaggio populista. Gli stessi populisti, i cui riflessi fondamentali sono autoritari, tendono ad appropriarsi del messaggio libertario. Donald Trump si presenta come una barriera contro il “pericolo socialista”, mentre Matteo Salvini (si parva licet) annuncia una “rivoluzione liberale”. Se non ci fossero risvolti più sinistri, verrebbe voglia di rievocare una battuta di Romano Prodi secondo cui per costoro la libertà consiste nel “diritto di parcheggiare in seconda fila”.
Questa commistione dovrebbe preoccupare in maniera particolare i liberali autentici perché li pone di fronte a dilemmi a cui non sono veramente preparati. A condizione di saper parlare all’elettorato, abbiamo gli strumenti politici per contrastare derive apertamente autoritarie. Ma decidere cosa fare di fronte all’abuso della libertà e del diritto di parola, richiede un riesame di principi consolidati nel tempo nella nostra cultura e che sono assurti quasi al rango di dogmi.
Cosa fare con chi dichiara illegittima la legge perché illegittimo è il potere democratico che la emana? Cosa fare con chi nega la scienza e la validità dei vaccini? Cosa fare con chi non solo rifiuta di proteggersi, ma mette coscientemente in pericolo altri? Sono manifestazioni dell’antico dilemma fra libertà individuali e interesse collettivo che pongono problemi in parte nuovi e che è urgente affrontare. L’imperativo categorico della primazia della legge è un pilastro della cultura occidentale dai tempi di Socrate. “Ogni volta che si arresta la legge, comincia la tirannia”, scrisse John Locke in un contesto diverso, ma sempre attuale e da non dimenticare.