Prezzi dell’energia e inflazione: alla ricerca delle cause

Sull’esplosione dei prezzi degli idrocarburi e dell’elettricità, le cui drammatiche conseguenze economiche e sociali sono al centro delle preoccupazioni dei governi di mezzo mondo, circolano spiegazioni semplicistiche. Per lo più si dice che “è colpa della guerra in Ucraina”. La realtà è più complessa, vi concorrono fattori soggettivi e oggettivi: decisioni politiche (fra cui, certo, quella di Vladimir Putin di aggredire il suo vicino, che ha provocato le sanzioni) e meccanismi economici.

L’impianto di stoccaggio di gas di Dashava, in Ucraina

 

Determinante è stata la pressione esercitata da Mosca sugli europei a partire dalla metà del 2021, riducendo le esportazioni di metano in preparazione della sfida all’Occidente di cui l’invasione dell’Ucraina è solo l’aspetto più drammatico; e poi nel 2022 riducendole ulteriormente e negandole interamente a diversi paesi in risposta alle sanzioni e agli aiuti militari forniti al paese aggredito. Ma Putin ha potuto massimizzare il danno inferto grazie a certe caratteristiche dei mercati dell’energia e a leggi dell’economia che può essere utile qui ricapitolare sinteticamente.

 

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Un primo concetto da tenere a mente è quello di “elasticità”. Come tutti sanno, se la domanda di un bene supera l’offerta il prezzo sale e i venditori  beneficiano di extra-profitti. Se il prezzo aumentato attira produttori marginali i cui costi ora arriva a coprire, si stabilisce rapidamente un nuovo equilibrio. Se invece l’offerta è fisicamente limitata o comunque non elastica in quanto la sua espansione richiede ingenti investimenti e tempi lunghi, il prezzo continua a salire fino a quando un sufficiente numero di consumatori lo trova proibitivo e rinuncia ad acquistare.

Questo meccanismo è ulteriormente accentuato se anche la domanda è anelastica. Se il prezzo delle ciliegie fa un balzo del 50%, i più fanno a meno di comprarle e si accontentano di altra frutta. Ma se lo stesso avviene con la benzina, i pendolari continuano a fare il pieno per recarsi al lavoro e magari rinunciano al cinema o al tennis. Solo se il prezzo del carburante arriva alle stelle, molti di loro passeranno a un’altra soluzione, magari „treno + bicicletta“ (con notevole vantaggio per l’ambiente).

Dove esiste questa scarsa elasticità della domanda e dell’offerta, e in una situazione di quasi-monopolio o oligopolio, come nel caso degli idrocarburi, maggiore è la possibilità per i produttori di manipolare i prezzi e ottenere profitti abnormi (oppure strappare concessioni politiche). È quello che ha fatto la Russia quando nel 2021 l’economia mondiale è uscita dalla fase depressiva dovuta alla pandemia e ha ripreso a farsi sentire la fame di energia della Cina. Dopo essere stata per molti anni un partner affidabile, ha deciso di approfittare dell’eccesso di domanda per spingere in su i prezzi di gas e petrolio, così da far sentire agli europei quanto può essere doloroso scontrarsi con il Cremlino. Accanto alla finalità già accennata di prepararsi all’aggressione precostituendo un deterrente alle sanzioni, c’era quella di convincere Berlino a dare via libera all’entrata in funzione del gasdotto Nord Stream 2, nonostante la forte contrarietà americana.

L’ampiezza del differenziale fra prezzo di vendita e costi sostenuti, cioè del margine di profitto, è aumentata, in presenza di una forte domanda, da un’altra legge economica: il prezzo si forma in base non al costo medio ma a quello marginale. Se per sfamare una popolazione occorre coltivare anche le pendici delle montagne dove non arriva il trattore, il prezzo necessario a remunerare quelle coltivazioni poco efficienti si applicherà anche al grano prodotto a costi molto inferiori nel resto del paese (o del mondo). Analogamente, se la crescente domanda di petrolio obbliga a sfruttare pozzi poco efficienti o a grande profondità, quel costo andrà a gonfiare il prezzo mondiale e regalerà extra-profitti alle compagnie che continuano ad estrarre il loro petrolio o gas a costi molto più bassi.

Lo stesso meccanismo genera distorsioni nel mercato dell’energia elettrica: quella immessa in rete da centrali alimentate da fonti rinnovabili ha oggi un costo molto competitivo. Quando l’offerta è insufficiente, entrano in gioco le centrali che impiegano fonti fossili, a costi crescenti: carbone, olio combustibile o gas. Le centrali che bruciano gas, al momento carissimo, sono quelle che dettano il prezzo dell’elettricità. Le altre fanno perciò profitti abnormi, detti “windfall profits” (portati dal vento, come la manna, non dovuti a particolare abilità manageriale). Poiché questo meccanismo, detto “merit order system“, crea gravi disagi a famiglie e imprese industriali, e inoltre contribuisce in misura rilevante alle spinte inflazionistiche, è allo studio in ambito europeo lo sganciamento (“decoupling“) del prezzo dell’elettricità da quello del gas, verosimilmente sovvenzionando le produzioni più costose, in particolare quella a base di metano. Il problema del decoupling è meno sentito in paesi come l’Italia e la Germania in cui il gas fa ancora la parte del leone, di più in quelli più avanzati nella sua sostituzione (in Austria costituisce solo un terzo del fabbisogno delle centrali).

 

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Un ulteriore fattore da considerare è la “volatility” dei mercati: come tutte le borse, quelle degli idrocarburi e dell’elettricità tendono ad iper-reagire alle scosse. In tempi di grande incertezza come questi, l’aumento dei prezzi nei contratti a termine tende ad auto-alimentarsi, perdendo l’ancoraggio con le realtà produttive. Il mercato dei futures, nato per tutelare compratori e venditori da eccessive oscillazioni dei prezzi spot, si presta ad operazioni di pura speculazione.

Un esempio è stato fornito in questi giorni dallo scandalo della Wien Energie, l’azienda municipalizzata che fornisce elettricità alla città-regione di Vienna: improvvisamente, durante l’ultimo weekend di agosto, ha chiesto allo Stato un urgente credito di 2 miliardi, senza il quale due giorni dopo sarebbe andata in default e avrebbe lasciato al buio 2 milioni di persone. Si è anche appreso che nelle scorse settimane il sindaco le aveva già concesso due iniezioni di liquidità da 700 milioni; e che prossimamente saranno necessarie fidejussioni per un totale di 8-10 miliardi (a seconda dell’andamento del mercato). Il governo federale non ha potuto fare a meno di accordare al sindaco la linea di credito di 2 miliardi per il salvataggio immediato dell’azienda elettrica, nè potrà negare ulteriori aiuti, ma ha disposto un’indagine. Al momento risulta che la Wien Energie ha venduto a termine un quantitativo di elettricità circa 3 volte (!) superiore alla sua produzione annuale, a un prezzo allora ritenuto sicuro ma poi rivelatosi di poco superiore a un decimo di quello attuale.  Il conto di queste speculazioni sbagliate verrà pagato dai contribuenti, mentre i massimi dirigenti della municipalizzata non rischiano tagli ai loro stipendi da 430.000 e 272.000 € annuali.

Soltanto a partire da questo quadro di fondo è possibile analizzare e valutare i rimedi allo studio per affrontare la crisi dei prezzi dell’energia, compresa la spinosa ma ineludibile questione del prelievo sugli extra-profitti.

 

 


Secondo capitolo: Prezzi dell’energia e inflazione: i possibili rimedi

 

 

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