Le manifestazioni di fine estate in Indonesia hanno riportato alla memoria le proteste del 1998, quando il dittatore Suharto è caduto dopo oltre trent’anni di regime e le piazze studentesche hanno aperto la strada alla transizione democratica. Oggi migliaia di persone (studenti, lavoratori precari e venditori ambulanti) hanno invaso le strade per contestare una classe politica percepita come distante e autoreferenziale, mentre problemi di natura economica continuano a colpire soprattutto i giovani.
La scintilla è stata l’approvazione di un’indennità abitativa per i parlamentari, pari a circa 50 milioni di rupie al mese, quasi dieci volte il salario minimo della capitale. Una decisione che ha scatenato indignazione in un Paese dove la disoccupazione giovanile ha superato il 16% e circa il 60% dei lavoratori è rimasto confinato in lavori senza contratto e tutele, con difficoltà di accesso a impieghi stabili anche per i laureati.
La morte di Affan Kurniawan, un giovane autista di taxi privati di 21 anni travolto da un blindato della polizia durante le manifestazioni, ha trasformato quella che poteva sembrare una protesta contingente in un movimento di contestazione più ampio, che investe la credibilità delle istituzioni e la stessa tenuta della democrazia indonesiana. Durante le proteste almeno otto persone sono morte, centinaia sono rimaste ferite, oltre 1.240 sono state arrestate a Giacarta e 20 risultano scomparse.
La crescita economica, rimasta intorno al 5% negli ultimi anni, ha perso slancio nei primi mesi del 2025. La classe media si è indebolita e l’economia è danneggiata anche dalle difficoltà della Cina, primo partner commerciale. Secondo i dati riportati da Bloomberg e France24, i prezzi dei generi alimentari sono aumentati e dall’inizio del 2025 oltre 42.000 lavoratori hanno perso il posto, con un aumento del 32% rispetto allo stesso periodo del 2024. A giugno il governo guidato da un anno da Prabowo Subianto e composto da una grande coalizione di partiti ha annunciato la sospensione della pubblicazione dei dati sui licenziamenti, motivando la scelta con il rischio di «panico pubblico».
In questo contesto, il privilegio parlamentare è apparso come un insulto. Un video diventato virale, in cui alcuni deputati hanno ballato durante la sessione annuale del Parlamento, ha ulteriormente alimentato il senso di distanza tra élite e cittadini. Il movimento di protesta è nato online e si è diffuso rapidamente grazie ai social. TikTok, che era diventato uno strumento centrale di mobilitazione, ha sospeso le dirette, mentre il governo ha negato di aver imposto il blocco.
Dalla rete è emersa la piattaforma «17+8», un documento elaborato da studenti, associazioni civiche e attivisti digitali che raccoglie le principali richieste dei manifestanti. Le 17 misure immediate chiedono, tra l’altro, la liberazione dei fermati, la fine del coinvolgimento dei militari nell’ordine pubblico, un’inchiesta indipendente sull’uccisione dell’autista Affan Kurniawan e lo stop agli aumenti delle indennità parlamentari. Le 8 riforme strutturali fissano un’agenda di un anno: riforma di parlamento, partiti e polizia, nuove regole di trasparenza fiscale e garanzie più solide per la libertà d’espressione.
Per chi guarda le piazze di oggi è inevitabile ricordare il 1998. Allora gli studenti hanno spinto per la fine del trentennale regime di Suharto, aprendo la strada a una transizione democratica. Oggi, però, il contesto è diverso. L’Indonesia è formalmente una democrazia, ma un’élite oligarchica concentra ricchezza e potere. Nel 2017 i quattro indonesiani più ricchi possedevano un patrimonio pari a quello dei 100 milioni di cittadini più poveri (dati Oxfam), a conferma di una disuguaglianza molto elevata. Secondo diversi osservatori, a questa disparità contribuisce anche un decreto del ministero delle Finanze del 1994 che esenta i funzionari pubblici dal pagamento delle imposte sul reddito personale. In Indonesia la disuguaglianza economica è inseparabile dalla dimensione politica: molti tra i più ricchi appartengono all’élite di governo, e misure come il decreto del 1994 dimostrano come quella posizione di preminenza sia utilizzata per rafforzare rafforzare privilegi e disparità.
Anche la gestione della protesta richiama ombre del passato. Il dispiegamento massiccio di militari nelle strade di Giacarta, Surabaya, Bandung, Yogyakarta e Makassar evoca le pratiche dell’«Orde Baru», il Nuovo Ordine, il regime autoritario instaurato da Suharto dal 1967 al 1998. Il presidente Prabowo Subianto (ex generale ed ex genero del dittatore, già accusato di violazioni dei diritti umani e implicato nelle sparizioni di attivisti nel 1997-1998 quando guidava reparti speciali Kopassus) ha definito alcune azioni dei manifestanti come «terrorismo» e «tradimento» e ha lodato l’operato delle forze di sicurezza, annunciando promozioni per i poliziotti feriti durante i disordini.
Le piazze indonesiane sono tornate a essere uno spazio di rappresentanza alternativo, dove la frustrazione sociale ha trovato sfogo e visibilità. La violenza, i saccheggi e gli incendi hanno riportato alla mente i momenti più drammatici del 1998, ma hanno anche mostrato la capacità della società di reagire di fronte a un sistema politico percepito come impermeabile.
Questa crisi non riguarda solo la stabilità interna. L’Indonesia, con i suoi 277 milioni di abitanti, è il Paese più popoloso della regione e un attore centrale dell’Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), l’associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico – anche per la sua posizione geografica strategica. In un epoca in cui questo quadrante è diventato campo di conflitto tra Stati Uniti e Cina, le turbolenze interne di Giacarta rischiano di indebolire la sua capacità di leadership.
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Washington osserva con preoccupazione la situazione, perché un’Indonesia instabile rischia di compromettere le politiche americane di contenimento della Cina, in particolare sul piano della sicurezza marittima e della cooperazione economica. Pechino, al contrario, potrebbe trarre vantaggio dalla fragilità di Giacarta, rafforzando la propria influenza attraverso investimenti infrastrutturali, accesso privilegiato alle materie prime e rapporti diretti con l’élite politica ed economica. Da parte sua, l’Indonesia cerca di mantenere la sua tradizionale equidistanza, basata sul pilastro dei legami commerciali con la Cina e quelli securitari con gli Stati Uniti.
Negli ultimi anni, appunto, la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Indonesia e uno dei principali investitori nel Paese, soprattutto attraverso la Belt and Road Initiative, il progetto lanciato da Pechino nel 2013 e noto anche come Nuova Via della Seta. L’iniziativa mira a costruire una rete globale di infrastrutture, come porti, ferrovie, autostrade, centrali energetiche, e zone industriali, per rafforzare i legami commerciali e politici con Asia, Africa, Europa e America Latina. In Indonesia si è tradotta in grandi opere come la ferrovia ad alta velocità Giacarta-Bandung e in investimenti in porti, miniere e centrali elettriche, oltre che in un ruolo crescente nel settore tecnologico e digitale. In particolare la Cina ha assunto una posizione dominante nella catena di produzione del nickel, indispensabile per le batterie dei veicoli elettrici e quindi cruciale per la transizione energetica globale: circa il 75% della capacità di raffinazione indonesiana è già in mani cinesi.
Questa dipendenza ha accresciuto il peso politico di Pechino a Giacarta, garantendo alle aziende cinesi un accesso privilegiato non solo alle risorse naturali ma anche ai centri decisionali del Paese. Per la Cina l’Indonesia rappresenta al tempo stesso una fonte di materie prime, un mercato strategico e un tassello fondamentale per consolidare l’influenza nel Sud-Est asiatico. La rotta commerciale principale per l’industria cinese, quella che si dirige verso il Golfo Persico, Suez e l’Europa, ha uno dei suoi nodi più delicati proprio davanti alle coste indonesiane di Sumatra, nello Stretto di Malacca.
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Consapevole dei rischi di un’eccessiva dipendenza, Giacarta ha cercato di bilanciare questo rapporto rafforzando la cooperazione in materia di sicurezza marittima con gli Stati Uniti e altri attori regionali, soprattutto per contrastare le pressioni nel Mar Cinese Meridionale. Ma la crisi politica interna rischia di ridurre la capacità indonesiana di muoversi con autonomia, lasciando più spazio alla penetrazione economica e diplomatica di Pechino.
Intanto il governo ha annunciato delle concessioni al movimento di protesta, come la riduzione di alcune indennità parlamentari, ma che sono apparse più tattiche che sostanziali. Il malessere diffuso tra le nuove generazioni continua a crescere e difficilmente potrà essere represso senza conseguenze nel lungo periodo. La sfida non riguarda soltanto il rapporto tra un’élite chiusa e autoreferenziale e una società giovane, connessa e insofferente, ma anche il posizionamento internazionale del Paese. Un’Indonesia fragile rischia di trasformarsi in un terreno sempre più permeabile all’influenza cinese, proprio quando gli Stati Uniti cercano di farne un alleato centrale nella competizione regionale.