La crisi internazionale ha messo a dura prova, negli ultimi anni, le fondamenta economiche di molte regioni del globo. In Europa, si è ormai trasformata in un fattore di instabilità politica e sociale; modelli di sviluppo e modernizzazione, come quello irlandese o quello spagnolo, sono stati travolti. Sistemi politici solidi sono scossi dall’affermazione di nuove forze: lo abbiamo visto in Francia e in Inghilterra, ad esempio. E non solo in Grecia – anzi – la drastica riduzione dell’attività economica e della spesa pubblica ha modificato negativamente gli standard e le prospettive di vita di una parte importante della popolazione.
La stessa Unione Europea, minata dalla sfiducia dell’opinione pubblica, dalla discordia tra i membri, dalla pressione dei mercati finanziari, e dai suoi difetti costitutivi, ha rischiato come mai in passato di finire in pezzi. Curioso destino per una costruzione istituzionale ideata anche allo scopo di sfruttare al meglio le potenzialità economiche dei suoi aderenti. L’UE è oggi contestata da soggetti politici e fasce di cittadinanza di rilevanza primaria. Altrettanto accresciuto è il livello di conflitto politico tra le capitali nazionali e le istituzioni di Bruxelles, impegnate a disputarsi le competenze che l’Unione vorrebbe avocare e gli Stati mantenere – o in qualche caso recuperare dopo averle cedute.
L’Eurozona e la UE sono ancora intatti; tuttavia, al loro interno, nuovi poteri di fatto, nuovi centri decisionali, nuove regole si sono affermati nell’ultimo periodo. È un’evoluzione che rafforza l’Unione Europea? Le opinioni al riguardo divergono decisamente: ne discutiamo con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, il quale ha scritto molto sui problemi che affliggono la configurazione dell’Europa. Gli accordi e i patti siglati negli ultimi anni preludono alla soluzione del peccato originale dell’UE – cioè la mancanza di un’unione politica che renda completa e coerente quella economica – o sono al contrario definibili come la bendatura di un corpo che è a rischio decomposizione? Sono cioè interventi forse atti a evitare la catastrofe imminente, ma inutili o perfino dannosi per il resto?
“L’Unione Europea nata con il trattato di Maastricht del 1992 si è rivelata un disastro. D’altronde, l’integrazione monetaria è stata raggiunta non per l’affermazione di uno slancio ideale che pure era condiviso da molti, ma per un puro calcolo politico ad opera di chi temeva le conseguenze della riunificazione tedesca. La Germania unita dovrà rinunciare al marco – suo strumento di potenza economica – si pensò a Parigi, a Roma e anche a Londra; l’Europa sarà retta da una moneta unica con funzione di garanzia. Ma l’euro, ideato per ‘fregare’ i tedeschi, si è ritorto contro i suoi inventori.”
Davvero gli Stati europei hanno costruito uno strumento per tenere imbrigliato il proprio migliore “cavallo”, più che per lanciarlo al galoppo? E allora quale sarebbe il senso delle lunghissime trattative per la scrittura delle regole e dei nuovi trattati, degli sforzi per il loro rispetto, del prezzo pagato dai cittadini, ma politicamente anche da molti leader impegnati a difendere gli accordi presi a Bruxelles?
“La realtà ha dimostrato chiaramente che le regole dell’unione monetaria sono sbagliate. O meglio: vanno a vantaggio dello spazio economico che ruota intorno alla Germania. L’idea di rafforzare l’integrazione su questa base è fallita. Le regole non tengono conto delle differenze culturali né di quelle economico-sociali. Romano Prodi disse che il Patto di Stabilità deciso negli anni Novanta era ‘stupido’. I cosiddetti six pack e two pack, approvati tra il 2011 e il 2013, non fanno che rafforzare quest’impressione”.
Questi due pacchetti di regole rafforzano in effetti i vincoli contabili sugli Stati; sia perché li obbligano al pareggio di bilancio, sia perché li sottopongono alla stretta sorveglianza di Bruxelles. Attualmente sono sette (su diciassette) i Paesi dell’Eurozona che non sono in grado di rispettare le prescrizioni sul deficit, e addirittura 13 quelli eccessivamente indebitati. Perché tali impegni, che gli Stati non riescono a rispettare, sono stati accettati in prima battuta?
“Soprattutto per un problema di leadership. La scrittura delle regole è stata ‘appaltata’ alla Germania; prima come compensazione per la rinuncia al marco, ma oggi puramente per inerzia e per l’incapacità e il disinteresse delle élite politiche degli altri Stati europei a riformarle. Questi sottovalutano la loro forza potenziale, soprattutto in alleanza l’uno con l’altro, e finiscono per limitarsi a una funzione di freno nei confronti di Berlino. Un freno piuttosto inefficace”.
Eppure gli europei credono nell’integrazione; molte delle nuove forze politiche che contestano le attuali regole monetarie e di bilancio sostengono comunque il valore intrinseco dell’euro e di una futura unione politica.
“Gli europei ci credono abbastanza, ma i loro governi molto meno. Non bisogna dimenticare che l’integrazione è nata per mano americana in funzione anti-sovietica; dopo il 1989 è stato chiaro che agli Stati interessava poco. Molti di loro, ancora oggi, hanno rapporti migliori con Washington che con i loro partner continentali, di cui non si fidano; e la sfiducia reciproca ha contagiato le opinioni pubbliche”.
Ma l’asse franco-tedesco aveva funzionato bene, per tutti gli anni Ottanta, ravvivando una CEE che sembrava appannata; perché si è inceppato?
“Si è inceppato per volontà di entrambe le parti. Parigi continua a soffrire della sua proiezione mentale per la quale l’Europa deve adeguarsi alla Francia: un modo di pensare irrealistico che impedisce un’iniziativa politica compiuta e credibile da parte francese”.
E la Germania? Ora che si è conquistata le chiavi dell’Unione non dovrebbe lavorare per rafforzarla?
“In realtà Berlino non ha quella capacità di leadership che ad esempio ebbero gli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale, quando consentirono ai loro alleati del vecchio continente, a pezzi, di risollevarsi attraverso sostanziosi prestiti economici”.
Ad Angela Merkel manca allora una visione europea?
“La prima preoccupazione della Cancelliera è soddisfare i suoi elettori, poi viene il resto. I tedeschi vogliono che tutto resti in ordine e sotto controllo: di questo, e nient’altro, dovrà occuparsi la nuova Commissione guidata da Jean-Claude Juncker. L’opinione pubblica in Germania si sente sempre meno legata alla UE, e così anche il mondo economico-finanziario: da una parte ritengono (ingiustamente) di pagare già per tutta la baracca; dall’altra c’è un senso di orgoglio e rivalsa che spinge il Paese a credersi in grado di competere con i colossi del mondo, come Stati Uniti e Cina”.
Questa introversione franco-tedesca non potrebbe lasciare spazio all’iniziativa di altri Paesi?
“Sì, se le élite politiche prendessero coscienza e coraggio; l’opinione pubblica, di fronte a una proposta convincente e realisticamente europeista, risponderebbe positivamente. L’Italia sarebbe nella posizione giusta per prendere un’iniziativa in questo senso: il nostro Paese avrebbe molto da guadagnare da una UE più funzionante. Invece, paradossalmente, l’etno-nazionalismo così radicato nella parte orientale del continente sta contagiando anche l’Ovest, ‘orientalizzandolo’”.
Difficile a questo punto abbandonarsi a previsioni rosee, quindi.
“Non c’è spazio per l’ottimismo della volontà. Vedo tre possibilità: nel più auspicabile dei casi, gli Stati manterrebbero l’integrazione economica, con un gruppo più ristretto in grado di costruire un’unione politica. Nello scenario purtroppo più probabile cambierebbe poco o nulla: non saremmo in grado di sfuggire a lunghi anni di stagnazione economica, e i problemi attuali non sarebbero risolti”. “La terza possibilità, ancora più pessimista, prevede l’implosione dell’UE, con contrasti violenti tra gli Stati europei e forse guerre. Dobbiamo sperare che l’Europa sia capace di non dimenticare che il lungo periodo di pace dal dopoguerra a oggi è stata un’eccezione nella sua storia; per di più imposta sotto coordinate geopolitiche oggi profondamente mutate”.